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 CENT'ANNI DI FUTURISMO Data: 15/02/2009
Appertiene alla sezione: [ Cultura ]
di Michela Nacci


Quest’anno cade un anniversario importante, un centenario per l’esattezza: il 20 febbraio 1909 veniva pubblicato il “Manifesto del futurismo”. Opera di Filippo Tommaso Marinetti, il Manifesto era composto da poche secche affermazioni: undici punti programmatici espressi in altrettante frasi lapidarie. Vi si esponevano le convinzioni artistiche, politiche, intellettuali del movimento. Gli undici “comandamenti” presentavano, in pillole, la concezione del mondo futurista: basta con il passato, evviva il nuovo in ogni campo, bisogna essere forti e temerari nel mondo forgiato dalla tecnica. Il Manifesto suscitò un clamore certamente più piccolo di quanto desiderava ma grande abbastanza da scuotere il pubblico e farsi ricordare a lungo. Il periodo che segue il 1909 vede infatti i futuristi, già all’opera in precedenza soprattutto in campo artistico e letterario, in prima linea sulla scena culturale italiana ed europea. In prima linea lo furono anche nella realtà: furono presenti infatti nell’impresa dannunziana di Fiume studiata da Claudia Salaris nel volume “Alla festa della rivoluzione. Artisti e libertari con D’Annunzio a Fiume”, Bologna, Il Mulino, 2002). Sono vicini al fascismo, del quale apprezzano le virtù maschie e l’energia, ma è difficile pronunciarsi per un rapporto forte tra il futurismo nel suo insieme e il regime che si afferma in Italia: non a caso se ne discute ancora. Nello stesso torno di anni esplodono le avanguardie: il surrealismo e il movimento dadaista, il cubismo, il verticismo, il costruttivismo. Tutti fanno sentire la loro voce forte e distruttiva, ribelle e trasgressiva. Una caratteristica unisce tutte le avanguardie: l’irriverenza. Irriverenza per la tradizione prima di tutto: le forme, i modi, il linguaggio della letteratura e le prospettive consolidate dell’arte, le norme ereditate dal passato, il rispetto delle regole, la trasmissione di tali regole attraverso scuole e l’accademie. Irriverenza per tutte le convenzioni consolidate: dalla morale all’ordine sociale, dall’etica alla religione.

Lo sguardo del futurismo è sempre eversivo; vuole essere negativo, non propositivo, preferisce distruggere piuttosto che riformare. Ama la folla ma non le masse organizzate dai partiti. Nella folla vede una caratteristica dell’epoca moderna: vi legge energia, movimento, velocità. Ma non la ritiene il soggetto di un mutamento possibile o necessario, come invece fanno i socialisti. Il futurismo si rifiuta di essere inquadrato, si ribella. A che cosa? A tutto. Il primo a farne le spese è il linguaggio: che sia della pittura, della scultura, dell’architettura, della musica, o della letteratura, il linguaggio salta, esplode, si disintegra sotto i colpi dei distruttori, degli eretici, dei ribelli, dei ragazzacci futuristi. La morale segue a ruota, come in tutte le avanguardie che si rispettino. Nel caso dei futuristi si tratta di gesti eroici, temerari, guida di aerei e automobili, imprese militari, tutti utilizzati come esibizione di unicità, originalità, forza, come sfida ai borghesi pantofolai.

C’è un peculiare amalgama nel futurismo tra forza, soggetto (sempre e invariabilmente maschile, e infatti si dichiarano antifemministi così come antiborghesi, antipacifisti e antiutilitaristi) esaltato dalle nuove possibilità tecniche, che produce una sorta di eroismo adeguato ai tempi: dall’amore per la guerra – “sola igiene del mondo” – all’esasperato protagonismo individuale che conduce alla prodezza, alla beffa, all’impresa ardua, al superamento della prudenza. Aperti a un regime della forza ma forse anche ad altri che semplicemente avessero successo, la propensione ideologica dei futuristi è significativa, ma difficilmente etichettabile a priori come di destra o di sinistra, come rivoluzionaria o reazionaria. Anche sul piano personale quei personaggi giocarono ruoli diversi, molteplici, accomunati solo dal fatto di richiedere coraggio e presenzialismo.

E’ legittimo chiedersi che cosa resta del futurismo dopo cento anni dalla sua nascita ufficiale. Sull’importanza che ha avuto si può discutere, ma insomma è innegabile. I quadri, le poesie e le prose dalla struttura frantumata per catturare i rumori dei motori, i poster pubblicitari e le sculture, possono piacere o non piacere (e a me personalmente non piacciono molto), ma è innegabile che abbiano segnato un’epoca, insieme con le altre avanguardie novecentesche. Il futurismo è fra i primi a percepire l’importanza dell’industria culturale: il suo artista non è l’intellettuale isolato dalla società, ma colui che lavora (ed è retribuito) per la nascente industria della cultura, spesso per l’industria tout court. Molto è stato scritto sulla concezione futurista della tecnica: le novità riguardavano i mezzi di trasporto, la guerra, e dotavano l’essere umano di poteri maggiori che in passato trasformandolo in una sorta di superuomo. La tecnica rappresentava per i futuristi la forza più importante che governava il mondo, ed era vista come staccata dai soggetti individuali e collettivi che potevano usarla: per i futuristi era una forza impersonale, demiurgica, sovrana, rispetto alla cui efficacia si ridimensionavano l’economia, la politica, i gruppi sociali e i partiti. Sulla valenza politica del futurismo ci si è divisi e si continua a farlo: per alcuni congenitamente fascista, per altri sovversivo anche quando sposa le parole d’ordine più conservatrici e l’appoggio al potere. Forse, semplicemente, è impossibile caratterizzarlo in modo univoco in questo come in altri settori.

Un aspetto che invece viene solitamente trascurato nei bilanci sul futurismo riguarda il suo rapporto con i mezzi di comunicazione. Invece, è di particolare interesse il suo rapporto con la radio. Quando la radio viene immessa sul mercato di massa e si realizza la sua rapida diffusione (in Italia questo accade nel 1923-24, e la stessa data vale più o meno sia per l’Europa sia per gli Stati Uniti), gli intellettuali sono toccati e scossi dall’evento, e reagiscono in modi molto differenziati. Così anche i futuristi: nel 1933 Filippo Tommaso Marinetti e Pino Masnata pubblicano il Manifesto della radio, in cui rivendicano l’importanza del nuovo mezzo di comunicazione. Affermano che la radio è in linea con la concezione futurista del fare arte, del fare cultura: la radio rivoluziona il rapporto che esiste fra tradizione e innovazione a tutto vantaggio della seconda, parla il linguaggio della moderniità, che è quello della tecnica, imposta in modo radicalmente diverso il rapporto fra l’artista e il suo pubblico, fa piazza pulita delle istituzioni deputate alla fruizione della cultura tradizionale. Il movimento futurista italiano vede nella radio nascente la realizzazione della sua idea che sia necessario distruggere tutto ciò che non è moderno per essere al passo con i tempi, per comprendere davvero il senso dell’epoca attuale. La radio consente un rapporto diretto fra artista e pubblico, senza la mediazione delle istituzioni o degli intellettuali-mediatori, dai teatri al giornale fino agli accademici. Sarebbe stato possibile fare la stessa cosa per la creazione e trasmissione della cultura, eliminando la necessità delle scuole.

La concezione futurista della radio deve essere inserita nella reazione vivacissima e differenziata da parte della cultura umanistica rispetto al nuovo mezzo di comunicazione. Alcuni, infatti, accettano con entusiasmo la radio e vedono in essa un’invenzione benefica per l’umanità, una incarnazione del progresso. Altri vi leggono il mezzo di una democrazia sostanziale della comunicazione. La cultura più tradizionalista la rifiuta e addirittura la demonizza, in parte perché è un’opera della tecnica, in parte perché è congenitamente totalitaria in quanto espressione dell’industria culturale (come si legge in “Dialettica dell’illuminismo”. Per Bertolt Brecht e Walter Benjamin la radio permette la trasformazione dell’ascoltatore in autore; per Rudolf Arnheim o Dziga Vertov, in un’ottica ancor oggi interessante, mette il mondo a disposizione dell’orecchio.

Ognuna di queste posizioni riflette anche sui possibili effetti politici della radio, che immagina in modi diversi: dalla democrazia realizzata al vero totalitarismo dei tempi moderni. In effetti, la radio fu utilizzata da regimi politici molto diversi (fascismo e nazismo, ma anche New Deal) che puntarono tutti su di essa per giungere in modo roboante ma anche intimo, collettivo e personale, al loro pubblico.

I futuristi vedono nella radio lo strumento di una sovversione dell’arte, della politica, della società, all’insegna del moderno, anche se non ne approfittano molto in pratica: realizzano alcuni, pochi, programmi, ma continuano a prediligere altri linguaggi (sui quali tuttavia sparano a zero). Per loro è decisivo il fatto che la radio sia un mezzo tecnico e annulli la mediazione con la massa del pubblico. La loro concezione della radio è significativa dell’idea che nutrono di una rottura necessaria nella cultura così come nella politica: la scomparsa della mediazione istituzionale (l’intelletuale di professione da un lato, scuole e università dall’altro) avrebbe creato un cortocircuito dalle forme e dagli esiti ignoti, forse pericolosi, ma rispondente alla novità dei tempi, al mondo della tecnica, delle masse e degli individui forti. La letteratura critica successiva ha ripreso molto le loro indicazioni, specie nella versione di Marshall McLuhan sui possibili effetti politici della radio.

Forse, a un secolo di distanza, dobbiamo riconoscere che la rottura che i futuristi auspicavano si è verificata davvero. Chissà che cosa penserebbero i futuristi della nostalgia attuale per la radio (ritenuta buona, positiva, umana, culturale) rispetto alla televisione (cattiva maestra) e a internet (desocializzante e illusorio)? Probabilmente si limiterebbero a non capire. O forse, chissà, capirebbero fin troppo bene.

Per ricordare: il centenario del Manifesto futurista

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