Uno dei pilastri del Cristianesimo è la cura degli ammalati, l’accompagnamento dei moribondi, il lenire la solitudine del male, il dare dignità alla vita in ogni circostanza dell’esistenza. Ora, dopo la vittoria giudiziaria della famiglia Englaro e dei suoi protavoce bioetici, l’eliminazione fisica del disabile che non ha coscienza è diventata una possibilità concreta e, quel che più conta, socialmente legittimata. L’Italia ha assistito divisa alla cerimonia degli addii. Molti milioni di italiani sono rimasti indifferenti, attaccati al video che offriva le lacrime meno impegnative dei concorrenti del Grande fratello su Canale 5.
La Chiesa cattolica, diciamo la verità, ha affrontato i fatti divisa e impreparata. Non si capiva se dovesse valere l’appello alla mobilitazione del giornale dei vescovi o il prudente silenzio diplomatico dell’Osservatore romano, se facessero testo le grida accorate di alcuni cardinali o l’appello al silenzio di tanti altri, e anche la pressione orante, la meditazione, l’interiorità cristiana erano lacerate da diverse forme di compassione, da diverse idee su che cosa possa essere vita, morte o carità.
I cristiani d’Italia, cioè all’ingrosso i cattolici, non hanno espresso una classe dirigente intellettuale e morale in grado di tenere banco, di organizzare un persuasivo discorso pubblico e contrastare i laici militanti o laicisti, che sulla questione avevano le idee fin troppo chiare.
Infatti alcuni di loro hanno detto che la morte di Eluana è stata una nuova Porta Pia, una grande breccia nel muro non più del temporalismo petrino ma dell’influenza culturale e civile degli insegnamenti spirituali ed etici della Chiesa e del mondo cristiano. La morte, hanno detto i sostenitori del diritto di morire, ha smesso di essere mistero e dono, e così la vita è ridiventata disponibile, è cosificata, è un patrimonio individuale di cui si potrà presto disporre a mezzo di testamento.
Dicendo questo, i bioeticisti atei e materialisti che non credono in un orizzonte trascendente, e riducono tutto relativisticamente alle scelte individuali, non hanno detto il falso. Per il modo in cui la morte della ragazza è stata cocciutamente perseguita attraverso le sentenze, per il sovrappiù drammatico del conflitto tra il governo e il Quirinale, per l’affermarsi in particolare tra i giovani dell’idea che fosse giusto lasciare andare la malata in stato vegetativo persistente nella forma di un’eutanasia passiva, per tutti questi motivi la concezione cristiana della vita e della morte ha subito un colpo molto grave, che agisce nel profondo della cultura.
Alcuni vescovi, molti preti, settori importanti della Chiesa stessa, mentre i Ruini e altri ribadivano che lo spiraglio aperto all’eutanasia è scandalo e anatema per un cattolico, dicevano esattamente il contrario, predicavano a messa o nei giornali che lo scandalo è solo la violazione della libera coscienza, che la famiglia di Eluana doveva essere soltanto abbracciata e compresa, e alla fine certificando che quella trincea o frontiera o ispirazione spirituale intorno alla vita e alla morte la Chiesa può e deve sfumarla, se non cancellarla.
A me sembra che questa storia di rilevante peso simbolico dimostri la grande vulnerabilità del Cristianesimo oggi in Occidente. Dal matrimonio alla famiglia, dall’amore alla carità, le grandi coordinate della costellazione cristiana bimillenaria, sotto i colpi della religione scientista e della ulteriore scristianizzazione e secolarizzazione della nostra cultura, vengono scompaginate e confuse. È un problema centrale, credo, per chi osserva con partecipazione e sforzo di comprensione l’andamento delle cose che contano nel tempo in cui viviamo.