C’era un tempo in cui Boris Eltsin (morto stamani all’età di 76 anni) era considerato il pasdaran della perestroika. Non un nemico di Michkail Gorbaciov, ma semplicemente il più convinto assertore della necessità di una riforma radicale del sistema sovietico. Era la fine degli anni 80. Persino il quotidiano comunista Il Manifesto lo definiva il leader dell’ala sinistra del Pcus. Quasi che fosse un redivivo Leon Trotzky. E non, come poi si rivelò, un politico scaltro e populista. Anche geniale: come quando, durante il golpe ligacioviano dell’agosto nel 1991 a Mosca, si fece fotografare davanti al parlamento in piedi, su un carro armato, ad arringare le folle. Quella foto fece il giro del mondo. Le folle però non c’erano. C’era qualche giornalista, qualche fotografo (chiamato per l’occasione), e un drappello di curiosi. Il presidente Eltsin era anche questo: un uomo carismatico capace di geniali trovate comunicazionali, un oppositore nato capace di usare i media come pochi altri, più che un grande capo di Stato.
Boris Eltsin aveva settantasei anni. Sotto la sua presidenza, che durò dal dicembre 1991 alle dimissioni spontanee del 1998, inviò l’esercito contro il Congresso, reo di aver sfidato il suo potere presidenziale (furono circa 100 i morti secondo una stima benevola). Lasciò che prosperassero le mafie di nuovi miliardari, gestì le prime fasi della guerra in Cecenia, prima di dimettersi - sempre più minato nelle condizioni di salute - nel 1998, alla vigilia dell’elezioni di Vladimir Putin. Che si sia giocato male sue chance con la storia - scrive il giornalista Giacomo Franciosi - è fuori discussione. Che fosse un leader carismatico, dalle indubbie capacità oratorie anche. Ma le sole abilità tribunizie non gli servirono quando si trovò a governare un grande Paese come la Russia, in uno dei periodi più bui della sua storia.