Di Walter Veltroni non sono mai stato un grande estimatore. Lo considero un lupo travestito da agnello, o un pescecane camuffato da spigola, per usare una battuta che Giovanni Valentini ha coniato per Renato Soru. Insomma, il segretario uscente del Pd è uno scaltro burocrate di partito che è riuscito a far dimenticare le sue origini facendo l’Americano e, visto la prova che ha dato di sé nella capitale, anche un pessimo amministratore. Ciò detto, sarebbe ingeneroso attribuire a lui solo il disastro delle elezioni in Sardegna. Anzi, la dico tutta: sarebbe sbagliato pensare che lui, e solo lui, sia il responsabile della collezione di sconfitte che il Pd ha inanellato nell’ultimo anno, dalle politiche alle amministrative di Roma per finire con le regionali.
Il leader dimissionario del Partito democratico ha le sue colpe, tra le prime la sua indecisione a tutto. Ma, per usare uno slogan del vecchio Pci (”Veniamo da lontano e andiamo lontano”, cui una mano anonima aggiunse: “Siamo solo di passaggio”), gli errori vengono dal passato e vanno attribuiti a tanti. Forse vale la pena di ricordare che cosa sono stati gli ultimi vent’anni del maggior partito della sinistra, ciò che è accaduto dopo che il Pci fu costretto a fare i conti con il crollo dell’impero comunista.
Dal 1989 a oggi gli orfani di Botteghe oscure si sono affannati a cercare una strada alternativa per evitare uno scioglimento che appariva logico e inevitabile dopo la liquidazione della chiesa comunista di osservanza russa. In vent’anni, i nipotini di Palmiro Togliatti hanno cambiato simbolo e nome al vecchio Pci almeno tre o quattro volte, ma soprattutto, da Alessandro Natta in poi, alla guida del partito abbiamo assistito a una girandola di segretari (Achille Occhetto, Massimo D’Alema, Veltroni, Piero Fassino, poi di nuovo Veltroni), tutti alla disperata ricerca di una formula o di un nome che consentisse di salvare il partito. Ma le operazioni di chirurgia estetica, al simbolo e ai leader, non hanno fatto il miracolo.
Inutile anche l’ultimo esperimento, tentato in ricordo di Enrico Berlinguer, che col compromesso storico ad altro non mirava se non a mettere insieme i cattolici di sinistra e gli eredi del Fronte popolare. Il Partito democratico si è rivelato quello che era evidente fin da subito: un prodotto da laboratorio. “Un amalgama non riuscito” per dirla con D’Alema, dove la storia del Cattolicesimo non si mischia con quella comunista e il veterosindacalismo non si fonde con la modernità.
Il fallimento, come dicevo, ha molti padri. Oltre a quello di Veltroni, nel libro nero vanno iscritti anche i nomi di D’Alema, Fassino, Turco e compagni: tutti provenienti dalla vecchia scuola del Pci. Non ultimo quel Pier Luigi Bersani, che oggi si presenta come uomo nuovo, salvatore unico dei riformisti: in realtà appartiene al gruppo dirigente del partito da più di vent’anni. È un apparatcik come Veltroni e D’Alema, fin dai tempi in cui guidava la Regione Emilia-Romagna.
Non è dunque il solo segretario a doversi dimettere, ma è l’intero gruppo dirigente che deve prendere atto del proprio fallimento. Questa è la sola via per salvare la sinistra in Italia: se ne ha davvero a cuore le sorti, la generazione che proviene dal Pci deve avere il coraggio e l’orgoglio di farsi da parte. Dentro il Pd sta crescendo una classe dirigente nuova e davvero postcomunista. Sono trentenni e quarantenni che non provengono dalla burocrazia interna, ma dalle professioni e da altre esperienze, come il cattolico Matteo Renzi, che nella rossa Firenze ha sconfitto alle primarie i candidati di Veltroni e D’Alema. Tocca a loro ricominciare. Ma a patto che gli ex ragazzi di Berlinguer glielo lascino fare.