Un paio di numeri fa mi sono occupato delle difficoltà in cui si dibattono le piccole e medie industrie, alle quali le banche, strette tra la crisi finanziaria e i parametri patrimoniali imposti da direttive europee, stanno chiudendo il rubinetto del credito. Lo spunto mi era venuto da una chiacchierata con un amico imprenditore, che si lamentava della crescente difficoltà di farsi finanziare. Ma non immaginavo le dimensioni del fenomeno. Dopo la pubblicazione sono stato sommerso da lettere di piccoli proprietari d’azienda che non sanno più a che banca votarsi. La valanga postale mi ha dato la sensazione di una emergenza, che minaccia di abbattersi con effetti devastanti sulla nostra già fragile economia.
So bene che la mia rischia di apparire la scoperta dell’acqua calda. Da settimane il governo parla di misure a sostegno delle piccole e medie industrie, dimostrando di avere consapevolezza della difficile situazione. Il ministero dell’Economia ha elaborato un piano di finanziamento alle banche, perché queste possano disporre del denaro da elargire alle imprese. Il decreto mette a disposizione 12 miliardi di euro, che gli istituti di credito potranno incassare a tassi di mercato per poi girarli ad artigiani e piccoli imprenditori.
Visto che l’obiettivo non è quello di spendere quattrini pubblici per riempire i caveau delle banche, ma dare ossigeno alle imprese, il ministero ha messo dei paletti. Quei soldi non dovranno essere sperperati elargendo compensi milionari ai banchieri e neppure regalando fior di dividendi agli azionisti. Dopo gli eccessi della finanza allegra (ma solo per chi si riempiva il portafoglio), Giulio Tremonti vuole evitare che la festa continui con il denaro dei contribuenti. Dunque i banchieri dovranno sottoscrivere una specie di codice etico, in cui saranno posti dei limiti ai loro emolumenti.
Il divieto ai bonus stratosferici che non avevano alcuna correlazione con i risultati è una misura giusta che chiude un’epoca, ma non è la sola. Se ne accompagna una seconda: l’impegno a non ridurre il credito alle imprese nei prossimi tre anni. La clausola obbliga la banca a presentare un rapporto trimestrale sul sostegno dato all’economia reale, confrontando i dati con il biennio 2007-2008.
Basterà tutto questo a risolvere il problema della stretta creditizia? Purtroppo temo di no. Ho la sensazione che il piano rischi di non funzionare, più per colpa delle banche che della politica. Innanzitutto i costi. Se qualche imprenditore si illude di ottenere denaro a basso prezzo, si sbaglia. Gli istituti di credito pagheranno l’8,5 per cento e dunque al cliente toccherà sborsare qualcosa di più, perché le banche si rifaranno con gli interessi. E poi i guai dei banchieri. In un momento in cui i crediti incagliati o sofferenti aumentano, chi può garantire che le banche, una volta incassato il prestito, non lo usino solo per tappare i loro buchi, continuando a essere tirchie e occhiute nella concessione dei fidi?
È vero che il decreto prevede che il ministero e la Banca d’Italia sorveglino il loro comportamento, ma la norma è assai lasca. I banchieri in queste settimane hanno esercitato una specie di «immoral suasion», riuscendo a far cancellare dal decreto le norme più vincolanti. Risultato? Senza parametri precisi gli impegni a sostenere le aziende saranno discrezionali e gli istituti di credito potranno sempre giustificarsi spiegando che non sussistevano i requisiti necessari per finanziare una determinata impresa, che quell’azienda non era in grado di dare garanzie di solvibilità. Chi condannerà una banca che non eroga soldi a una ditta che va male o che è poco affidabile? Credo nessuno.
Naturalmente posso sbagliarmi. Però, come diceva Giulio Andreotti, a pensar male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca.