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 SOLO IL PD POTEVA DIRE SI ALLA FINTA PROPOSTA DELLA CGIL SULLE TASSE Data: 03/03/2009
Appertiene alla sezione: [ Il commento del giorno ]
di Giovambattista Palumbo

La CGIL ha recentemente proposto di introdurre una sorta di tassa di solidarietà. In sostanza, secondo tale proposta, per far fronte alla crisi e venire incontro ai soggetti economicamente più “deboli”, per un periodo di almeno due anni, si dovrebbe aumentare la tassazione sui redditi superiori a 150.000,00 Euro, aumentando l’aliquota dal 43% al 48%.

La tassazione extra, secondo i dati forniti dall’Amministrazione Finanziaria, riguarderebbe una platea di circa 115.000 contribuenti e dovrebbe portare nelle casse dello Stato un gettito aggiuntivo di circa un miliardo di Euro. La proposta non è stata però accolta con entusiasmo (per usare un eufemismo) né da Confindustria, che ne ha sottolineato l’impostazione da lotta di classe, né dagli altri Sindacati.

La CISL, in particolare, ne ha sottolineato la natura demagogica, ricordando come vi sia bisogno di una riforma molto più strutturale e complessiva del sistema tributario, finalizzata al recupero del meccanismo della progressività.

La UIL, invece, ne ha stigmatizzato la finalità punitiva, ricordando come una corretta politica fiscale non deve perseguire le sanzioni da lotta di classe, ma equità e legalità.

La misura infine non è certo piaciuta al Governo, che, con il Ministro Sacconi, l’ha semplicemente definita un’idea che “lascia il tempo che trova”.

Il ministro Brunetta, dal canto suo, ha bollato tale proposta come “una banalità infinita”.

Soltanto il PD si è lanciato in commenti entusiastici. L’ex ministro Damiano, vantandosi dell’affinità, ha anzi sottolineato come una soluzione del genere era già stata applicata dal governo Prodi, che, per un anno, aveva sterilizzato l’indicizzazione delle pensioni alte. Sulla stessa linea del PD anche Rifondazione, che, del resto, poco più di due anni fa aveva lanciato la famosa campagna “Anche i ricchi piangano”.

Che la proposta sia economicamente sbagliata appare comunque piuttosto evidente. Anche perché parte da un presupposto sbagliato, quale quello, appunto, che la (vera) ricchezza emerga dalla dichiarazione dei redditi.

Come giustamente evidenziato durante l’inaugurazione dell’anno giudiziario anche dal Presidente della Commissione Tributaria Regionale del Piemonte, infatti, “l’elite degli evasori fiscali è lungi dall’essere debellata, come dimostrano le statistiche sul numero degli evasori totali e sui miliardi di euro nascosti al fisco”. Elite che, del resto, ricorda ancora il Presidente, proprio per il fatto che nulla dichiara, assomma privilegi su privilegi (agevolazioni sulle rette degli asili e sulle tasse universitarie, accesso ai servizi comunali, sgravi e bonus fiscali etc. etc.). Aumentare quindi l’aliquota sui redditi più alti, facendo pagare cioè ancora più tasse a quei pochi che le dichiarano, vista la situazione di evasione fiscale endemica che caratterizza il nostro Paese, andrebbe proprio nella direzione inversa rispetto a quel principio costituzionale di equità e progressività che deve caratterizzare il nostro Ordinamento tributario. Certo infatti, solo per fare un esempio, non rientrerebbero in tale maggiore tassazione i proprietari di quel circa mezzo milione di appartamenti dati in affitto (circa il 15% dell’intero stock di case affittate da privati), i cui redditi di locazione sfuggono al Fisco, con perdita di circa 1 miliardo di Euro l’anno (guarda caso giusto quanto la CGIL propone di recuperare con la extratassazione dei redditi più alti). Insomma, la proposta avanzata dalla CGIL conferma solo che, a differenza delle altre sigle, questa ha preferito fare politica anziché sindacato.

Basta infatti pensare che la proposta avanzata non mira a chiedere una riduzione delle tasse sui propri iscritti e assistiti, come in teoria legittimamente potrebbe e dovrebbe fare un sindacato, ma mira a suggerire al governo, in modo peraltro demagogico e non economicamente efficace, quali altri soggetti tassare per attuare la (presunta) giusta politica fiscale, tipica (ed esclusiva) materia questa di azione politica.

La proposta avanzata, comunque, come detto, oltre che sbagliata e puramente politica, è anche iniqua, dato che appunto colpisce proprio quelli (pochi) che non evadono.

E in un Paese come il nostro, dove il mancato gettito da evasione fiscale è pari al 7% del PIL, pari cioè a circa 105 miliardi di Euro, risulta evidente come sia più proficuo parlare di una “giusta” lotta all’evasione fiscale che tassare ancora di più quei pochi che già pagano, anche considerato che, in base alle ultime dichiarazioni disponibili (quelle del 2006) su 40 milioni e 742 mila contribuenti, coloro che hanno un reddito superiore ai 150.000,00 Euro sono meno di 115.000, cioè meno dello 0,3% del totale. Le sorti d’Italia dovrebbero essere dunque a carico di questo 0,3%? Tassare con un’aliquota superiore tali redditi porterebbe, del resto, nelle casse dello Stato circa (solo) un miliardo di Euro (sempre che ciò non comporti conseguenze negative sui consumi e sull’IVA).

Se si riflette allora in ordine al fatto che, per garantire 100 euro al mese a tutti i lavoratori dipendenti servirebbero 15 miliardi di Euro, si capisce quanto la proposta sia puramente demagogica, oltre che inutile. Insomma, non si risolve certo così la crisi in corso.

Una proposta, non demagogica, certamente condivisibile da tutti e soprattutto foriera di ben altri incassi potrebbe invece essere questa: l'art. 2, comma 8, della L. 27 dicembre 2002, n. 289, aggiungendo all'art. 14 della L. n. 537 del 1993, un "nuovo" comma 4-bis, ha espressamente sancito la regola della indeducibilità dei costi connessi a fatti che costituiscono reato. Tale disposizione può essere considerata come una sorta di sanzione volta a colpire coloro che si rendono responsabili di reati. L'ordinamento giuridico non può ammettere infatti che fra i componenti negativi di reddito possano ricomprendersi anche costi e spese derivanti da attività costituenti reato, che, in quanto tali, certamente non sono meritevoli di tutela giuridica (e fiscale).

Tale previsione normativa, però, non viene in realtà applicata secondo le potenzialità che la potrebbero caratterizzare; anche perché per una sua puntuale applicazione sarebbe probabilmente necessaria una più intensa e costante collaborazione tra Uffici dell’Amministrazione Finanziaria e Procure della Repubblica. La norma, infatti, può essere concretamente applicata solo quando le notizie di reato vengono acquisite direttamente dalla Guardia di Finanza (o ad essa trasmesse da altra forza di polizia), oppure quando le comunicazioni giungono all’Amministrazione Finanziaria direttamente dagli organi giurisdizionali penali.

Le comunicazioni che, solo per fare qualche esempio, potrebbero riguardare la fattispecie in esame (ai fini della segnalazione di indeducibilità dei costi connessi) sono quelle attinenti ai reati di ricettazione, riciclaggio, contrabbando, falsa fatturazione, associazione a delinquere e comunque ogni fattispecie penale i cui costi collegati il contribuente ha comunque dedotto (acquisto della merce rubata e poi successivamente venduta, acquisto ed importazione illegale di merci poi rivendute sul territorio nazionale, tangenti per ottenere appalti, fatte passare magari come costi di consulenza, etc., etc.). Ogni reato, in teoria, può comunque comportare il sostenimento di costi da considerare poi fiscalmente indeducibili.

Immaginate di che importi si sta parlando? Altro che un miliardo di Euro. Altro che “tassa sui ricchi”.

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