di Susanna Tamaro
Sempre più spesso, quando lascio la collina di Orvieto dove vivo e vado a Roma, mi torna in mente la fiaba del topo di campagna e del topo di città. Girando per le strade, infatti, incontro conoscenti che mi fermano per salutarmi, ma invece di informarsi, come usualmente si fa, sulle novità e la salute, si mettono subitoa sparare dei piccoli comizi.
«Il nostro Paese è alla fine, viviamo in una dittatura, non si salva nessuno, non ci permettono neppure di morire come vogliamo, io voglio poter decidere la mia morte». Al quarto o quinto incontro, comincio a provare un certo disagio, così, sorridendo, azzardo un timido: «Personalmente, per quanto riguarda la mia morte, facendo i debiti scongiuri, mi affido a quello che hanno deciso Lassù». Ironia malposta, dato che subito mi arriva l’immancabile fucilata: «Ma cosa dici? Dio non esiste!». Il topo di campagna è abituato a passare lunghe ore in solitudine. Nella solitudine si fa domande e cerca di rispondersi e dunque, davanti ad affermazioni tanto perentorie, prova sempre uno stato di meravigliato stupore.
Come fanno le persone a essere così straordinariamente certe di un numero così alto di cose? Forse la solitudine fa male, forse bisogna passare più tempo ospiti del cugino di città, andare con lui alle cene, abbeverarsi senza freni a quelle elevate fonti di sapienza che sono i mass media, acquisire certezze su certezze e, con esse, anche l’energia livorosa per poterle imporre a chi ci sta intorno. Se c’è una cosa che mi colpisce in questi tempi è proprio la rigidità. C’è rigidità nei discorsi ossessivi, c’è rigidità negli sguardi, nei movimenti, nelle parole, nei pensieri, c’è rigidità - per non dire sclerosi totale - nei movimenti del cuore.
L’uomo moderno, l’uomo ipertecnologico, è diventato un essere che della rigidità ha fatto la sua bandiera, la forza del suo esistere. Si è creato una corazza intorno e con questa difesa meravigliosamente luccicante come quella dei cervi volanti va in giro per il mondo ad incontrare o, meglio, a scontrarsi con gli altri. La mia grande passione è sempre stata lo studio della natura, la vivo quotidianamente occupandomi delle piante e degli animali della mia fattoria e, da questa cura e da questo studio, ho dedotto una delle pochissime certezza della mia esistenza: dove c’è rigidità, non c’è vita. O meglio, anche se c’è, dura poco.
Tutto l’universo intorno a noi ci parla di continui cambiamenti, di perenne flessibilità, ma forse l’uomo tecnologico, l’uomo che vive con le pupille dilatate dai monitor e l’udito perennemente occluso dall’iPod, non è in grado di accorgersi di questa grande lezione che la natura ci dà. Perché c’è tanta rigidità? Alcuni animali, in caso di pericolo, simulano perfettamente la morte, irrigidendosi. Non sarà così anche per noi? Non sarà proprio la paura della morte - questo abisso su cui tutti siamo sospesi dal momento in cui veniamo al mondo - a spingerci a consumare la nostra vita nello stato di rigidità apparente? E la perdita del senso della morte non è forse soltanto la perdita del senso della vita?
Se sono scaraventato nei giorni senza averlo voluto e in quei giorni non riesco a vedere altro che un castigo, una prigione, cercherò solo modi di evadere, di distrarmi, di ingannare il tempo, di concedermi tutto quello che desidero per tentare di dimenticare l’angosciosa tragicità della mia situazione. Una cosa è salire su una barca con un sestante in mano e con la conoscenza delle costellazioni, un’altra è salirvi a mani vuote, senza alcuna nozione del cielo stellato.
Nel primo caso, sono in grado di seguire una rotta; nel secondo caso, per giungere a destinazione, posso solo affidarmi alla casualità delle correnti e alla clemenza del tempo. Immersa nel terrore della morte, la nostra società è diventata una società profondamente necrofila. Invece di avere quel sano atteggiamento di timore e di rispetto per questo evento così straordinariamente inevitabile e misterioso, lo si considera in fondo un argomento di diritto costituzionale. Incapaci come siamo di comprendere che ogni vita ha il coronamento con la sua morte e che queste due realtà - la vita che abbiamo condotto e la morte che ci attende - sono indissolubilmente legate e s’illuminano a vicenda, abbiamo bisogno di giudici, di atti notarili, di sentenze per essere certi che almeno questo sarà in mano nostra.
Così un atto giudiziario, uno scritto autenticato cancellano diversi millenni di letteratura, di sapienza, di poesia. La morte è mia e la gestisco io. Comprendere la sacralità della morte non ha niente a che vedere con l’essere credenti o meno, ma ha molto a che vedere con la complessità dell’essere umano, e non solo. Quando uno dei miei animali muore, gli altri passano molto lontano dal suo corpo ed evitano di guardarlo, come se ci fosse, in quell’improvvisa immobilità, qualcosa che smuove in loro un timore profondo.
In questi giorni, i prati intorno a casa sono pieni di agnellini appena nati. Riempiono l’aria con i loro belati, nella confusione del gregge chiamano le mamme ad alta voce e quando finalmente le trovano si attaccano a bere il latte scuotendo le code allegramente. Nel pomeriggio giocano tra di loro inseguendosi e se c’è un sasso, fanno a gara a salirvi sopra, spintonandosi. C’è allegria nelle loro corse, c’è quel pieno possesso della vita che sempre hanno i cuccioli di ogni specie. La maggior parte di questi agnellini, però, terminerà presto i suoi giorni per finire sulle nostre tavole pasquali e sui pascoli d’improvviso calerà un grande silenzio, rotto solo dal disperato belare delle madri.
Morte e vita intessono costantemente i nostri giorni e questo continuo alternarsi provoca delle sofferenze a volte difficilmente sopportabili. Per tre giorni le pecore cercano disperatamente i loro figli, la stessa cosa fanno le mucche quando vengono strappati loro i vitelli. C’è ribellione, disperazione, incredulità in quei belati, in quei muggiti, così come nei nostri pianti. Ma poi la vita riprende comunque, si succederanno altre generazioni perché è nel generare che si trova il senso profondo dell’esistenza. L’antidoto alla morte è proprio la vita, dove vita è sì il generare fisico ma anche il generare interiore: il rigenerare, il far nascere le cose e farle nascere nuovamente.
Vale a dire sottrarre la vita sia al ghigno del fato che alla burocrazia delle sentenze, affidandolo alla straordinaria complessità del cuore umano. Complessità che è capace di pazienza, di compassione, di ascolto, di accoglienza, di dolore - ma anche dalla capacità di lenirlo -, e di amore. Amore. Non è forse questa la parola più reietta? La necrofilia dei nostri discorsi, dei nostri pensieri ci ha fatto dimenticare questo. È l’amore per la vita il nemico di ogni rigidità, è l’amore l’unica luce che possiamo tenere timidamente in mano davanti all’oscuro abisso che ci attende.