«In tempo di crisi, sembra un paradosso, un artigiano lavora il doppio di quando c’è lavoro. Lavora per produrre. E poi lavora per trovare una soluzione, perché non c’è nessuno che si batte o fa rumore per dare un sussidio a un artigiano che ha perso il lavoro. Perché non si concepisce che anche noi possiamo rimanere senza reddito?». La e-mail è stata spedita alle 2 di notte. Alle 2.38, per la precisione. «Stamattina ho cominciato a lavorare alle 7, finisco ora», scrive Franco Ferretto. Ha 47 anni, 3 figli, una moglie, una piccola impresa artigiana con sette dipendenti in provincia di Padova. «Ormai per la normale conduzione della famiglia ho iniziato a intaccare i risparmi degli anni migliori in attesa che il vento torni a gonfiare le vele. Accadrà? Non lo so. Quello che so per certo che a noi niente è dovuto. Mai. E così ci resta solo una possibilità: aiutarsi da sé».
Li abbiamo chiamati «i dimenticati della crisi». Sono i piccoli imprenditori, i lavoratori autonomi, gli artigiani, sono la forza di questo Paese, la grande ricchezza, la spina dorsale, sempre celebrata nei volumi dei Censis e nei convegni della Bocconi. Sono quelli, però, a cui, appena il convegno finisce e il volume del Censis si chiude, nessuno pensa più. C’è la crisi? Ci vogliono i soldi per i precari, ci mancherebbe. E poi ci vogliono i soldi per la Fiat, chi li può negare? E poi ci vogliono i soldi per le banche, si capisce: non si muove foglia che sportello non voglia. E i piccoli imprenditori? Niente. Per loro niente. Possono rimanere a pancia vuota. Possono accontentarsi della Bocconi. I bocconi se li prendono altri. E così, come dice il padovano, alle 2.38 di mattina, «a noi non resta che una possibilità: aiutarsi da sé».
Abbiamo deciso di raccogliere le voci delle piccole imprese, i loro racconti, i loro sfoghi. Quando abbiamo iniziato ci aspettavamo di trovare rabbia, frustrazione, delusione. Le notizie che arrivano dal fronte economico in effetti fanno paura. Piazza Affari crolla di giorno in giorno. Wall Street pure. I centri studi e le organizzazioni internazionali si danno il turno a diffondere ogni mattina una statistica più spaventosa dell'altra. Siamo in mezzo al tunnel, ma a volte abbiamo l’impressione di essere in un pozzo nero. Nessuno sa dire se, come e quando si uscirà. Per questo ci aspettavamo di trovare solo desolazione, stanchezza, un po' di sfiducia. Invece. «Anche questa mattina», dice una delle prime mail arrivate, «mi sono alzato con il solito entusiasmo per affrontare la giornata con atteggiamento positivo... ». Anche questa mattina. Atteggiamento positivo. Proprio così.
Dove avevamo lasciato l’Italia che ci crede? Eccola qui. Un po’ depressa, incavolata nera con le banche, inferocita con il fisco e la burocrazia, esigente con il governo («aiuta la Fiat, e noi?»), però sempre vitale. Coraggiosa. Daniele Barbone ci scrive da Shangai: «Siamo partiti nel 2005, in un sottoscala di Varese, con un gruppo di ex colleghi rimasti disoccupati, tutti sotto i quarant’anni. Ora abbiamo due belle sedi (una vicina a Malpensa, una qui a Shangai) e siamo in pieno sviluppo. Nel gennaio 2009 abbiamo vinto il China Trader Award, per la posizione strategica raggiunta sul mercato cinese. Basta per far capire che alla crisi bisogna saltarle incontro con idee e determinazione?».
Certo: la carenza di liquidità è un problema grave, che rischia di diventare letale. «Ognuno paga quando può o quando vuole», ripetono molti imprenditori. Le grandi imprese ritardano i versamenti a loro piacimento, gli enti pubblici pure. E le banche non solo tagliano i finanziamenti, ma hanno pure atteggiamenti che molti artigiani definiscono «sleali» o di «strafottenza». Molti chiedono l’intervento del governo: «Intervenga e le bacchetti». Altri tagliano corto: «L’unico modo per salvarsi è starne alla larga... ». Pochi, però, si arrendono. Quasi tutti rispondono con un tono quasi di sfida. «La crisi? Ne approfitto per crescere», racconta il veneto Fazioli, produttore di rinomatissimi pianoforti. «Europa e America comprano meno? Io sto cercando di entrare in Sudafrica, Sudamerica e Australia». E un piccolo imprenditore lombardo, capo di un’impresa di 200 dipendenti, chiude la sua accorata mail dicendo: «Fare impresa in Italia significa, come si dice da noi, rangess... ». Post scriptum: «Adesso scendo in trincea a combattere».
Ecco: in trincea a combattere. È lo spirito, è la forza, è l’Italia che ci crede. E noi continueremo a raccogliere qui in redazione e sul sito Internet le testimonianze degli imprenditori. Perché rangess (arrangiarsi) va bene, ma fino a un certo punto. Diciamocelo: per le pensioni si mobilita il sindacato; per gli ammortizzatori sociali si mobilita la piazza; per i precari si mobilitano tutti. Ma chi si muove per artigiani e piccole aziende? Non è giusto che le loro voci rimangano inascoltate. Non è giusto che la famosa «spina dorsale» del Paese resti dimenticata. Anche perché a prestare orecchio, si sentono testimonianze semplici e belle, come quella di Franco Gai, di Villarbasse, hinterland di Torino. Gli affari della sua azienda diminuiscono (-35 per cento), la Fiat paga in ritardo, le difficoltà aumentano. «Pensate di ricorrere alla cassa integrazione?», chiede loro il nostro Stefano Filippi. E lui risponde sicuro: «No. Né cassa integrazione né licenziamenti. Resisto perché sono un imprenditore, non un finanziere. Ho un’etica. Finché posso tiro fuori i soldi di tasca mia... ». Finché può, proprio così. È un imprenditore, non un finanziere. E finché può noi, almeno, dobbiamo dargli la possibilità di raccontarlo.