Avrei voluto esserci personalmente, un’inquadratura unica tra le sabbie del deserto libico e il fermo immagine di due dromedari dono del rais, con il colonnello Muammar Gheddafi accanto alla sua tenda e Silvio Berlusconi, che aveva appena riscattato solennemente, con una richiesta di perdono, il nostro feroce e dimenticato passato coloniale.
Il Cavaliere scherza sempre con il passato, non si mostra a suo agio con le celebrazioni, tira calci agli anniversari repubblicani (il 25 aprile) e si sottrae alla storia cerimoniale e al pensiero unico (l’elogio bonario del confino sotto il fascismo), a volte fa tutto questo in modo garbato, a volte irritante; ma stavolta ha detto parole che hanno stordito le sensibilità democratiche a lui avverse, e mandato a spasso la caricatura dell’uomo nero della situazione: «Ancora e formalmente accuso il nostro passato di prevaricazione sul vostro popolo e vi chiedo perdono. Il passato che con questo trattato vogliamo metterci alle spalle è un passato per il quale noi, figli dei figli, ci sentiamo in colpa, una colpa di cui chiedervi perdono. Nessun popolo ha il diritto di sottomettere e governare un altro popolo, sottraendogli la sua cultura e le sue tradizioni».
Negli ultimi 15 anni al governo c’è stato lui per la metà del tempo e per l’altra metà quel centrosinistra che rivendica la primogenitura repubblicana, che si sente erede della migliore tradizione democratica e progressista, contro il mercantilismo e il populismo dell’usurpatore. Eppure è toccato a lui, che ha portato gli ex fascisti al governo, alla legittimazione politica e nel Partito popolare europeo, il compito di elaborare un lutto storico.
Il cronista del Manifesto, Maurizio Matteuzzi, lo ha riconosciuto con parole barcollanti, domandandosi tormentato il perché. Come è possibile che sia stato Berlusconi, e non Prodi, non D’Alema, non Amato, non Dini, a sciogliere un nodo morale e storico così ingarbugliato? Come mai è stato lui e solo lui il capo di governo capace di volare a Bengasi e di firmare il 30 di agosto un trattato che chiude quasi un secolo di storia coloniale italiana? Come mai questo Parlamento eletto appena un anno e mezzo fa, il più massicciamente a destra della storia, ha ratificato il trattato e aperto la nuova pagina degli scambi liberi, del rientro facoltativo dei profughi, delle nuove occasioni di investimento nell’economia e nel bacino energetico libico parallelamente ai risarcimenti (5 miliardi di dollari in 20 anni) e a una serie di opere simboliche da concedere alla nuova memoria postcoloniale finalmente condivisa?
La notizia del banchetto nel deserto, con il vecchio colonnello terrorista che si è trasformato in statista lungimirante (dopo la vittoria occidentale in Iraq) e ha accettato la pacificazione, è stata sbrigata in disattenta fretta da molti giornali, e invece è significativa. Il pragmatismo berlusconiano, quell’attitudine allo scambio e al far disinvoltamente comunella in diplomazia, la prospettiva di rafforzare l’Eni in Libia e riaprire un canale di investimento anticiclico agli imprenditori italiani, tutto questo «mercantilismo» ha prodotto un evento perfettamente inquadrabile in una politica dei principi, delle proclamazioni solenni, dei doveri morali soddisfatti, che passerebbe il più occhiuto e rigoroso esame storico.
Basta non esagerare. Per anni il solo Angelo Del Boca, personaggio speciale di giornalista romanziere e storico, ha battuto il ferro dei crimini coloniali italiani in Africa, anche contro il grande Indro Montanelli e la sensibilità diffusa degli «italiani brava gente». Ora la svolta, con il timbro dello Stato. Ma senza dimenticare che la storia è un intreccio di bene e di male, e che il fenomeno mondiale del colonialismo non sfugge alla regola della mescolanza.