Di Giovanni Porzio, da Baghdad
L’Italia torna in Iraq. A sei anni dalla caduta di Saddam Hussein non sono i soldati a rimettere piede in Mesopotamia ma le aziende italiane interessate al gigantesco business della ricostruzione e allo sfruttamento dei più ricchi giacimenti inesplorati di idrocarburi del pianeta. Dopo la visita questa settimana a Baghdad del ministro per lo Sviluppo economico, Claudio Scajola, l’Eni, in pole position per i pozzi di Nassiriya, potrebbe essere la prima compagnia petrolifera occidentale a firmare un contratto con il governo iracheno. “Nei mesi scorsi il numero di delegazioni è cresciuto” conferma a Panorama l’ambasciatore Maurizio Melani. “Arrivano piccoli e medi imprenditori, come pure i manager delle grandi industrie”.
A richiamare le imprese sulle rive del Tigri è il miglioramento della sicurezza, frutto della nuova strategia del Pentagono e del rafforzamento del governo di Nuri al-Maliki. Tanto che Barack Obama ha annunciato la “fine della guerra” e il ritiro delle forze americane entro il 31 agosto 2010. Gli insorti sono ancora attivi a Mosul e a Diyala, i kamikaze continuano a fare vittime, ma il numero degli attentati è drasticamente diminuito.
Nella capitale si respira un’atmosfera diversa. I marines sono spariti dalle strade, ora controllate dalla polizia irachena. Molti posti di blocco sono stati rimossi e alcuni tratti dei muri di protezione intorno ai quartieri sono stati demoliti. Sulla Zona verde non piovono più razzi.
I negozi di Karrada street, stracolmi di elettrodomestici e abbigliamento turco, non chiudono prima delle 22. Mutanabbi, la via dei librai, è stata ricostruita. Le rivendite di alcolici e persino qualche locale notturno hanno riaperto. E il venerdì il lungofiume Abu Nawas si riempie di coppie e famiglie che osservano divertite il rinnovarsi della tradizione del “masgouf”, la carpa del Tigri arrostita sui fuochi di legna.
La presenza italiana non è venuta meno neppure negli anni più duri del conflitto. La missione archeologica ha completato la riabilitazione del Museo nazionale, inaugurato il 23 febbraio. Il Provincial reconstruction team di Nassiriya è da tempo impegnato in programmi di formazione. E nella base di Camp Dublin, a Baghdad, i carabinieri hanno già addestrato oltre 3 mila agenti della polizia irachena.
Ora sono le imprese a farsi avanti. Le aziende italiane hanno già firmato contratti di fornitura per 1 miliardo di dollari nel settore petrolifero, nell’agroalimentare e nei trasporti. La Fincantieri ha varato il 28 gennaio il primo di quattro pattugliatori ordinati dalla marina irachena. Altri accordi riguardano la costruzione di complessi ospedalieri modulari da assemblare in loco.
Inoltre il governo di Baghdad ha chiesto la collaborazione italiana (Astaldi, Snam progetti, Saipem) in progetti di massima rilevanza strategica: la riabilitazione delle raffinerie e delle centrali elettriche e la costruzione del nuovo porto di Fao.
Diciotto anni di embargo e guerra hanno devastato le infrastrutture. Le raffinerie producono a un terzo della capacità; gli oleodotti sono stati sabotati e le corrose pipeline sottomarine sono al collasso; metà della popolazione è senza elettricità, acqua potabile e assistenza sanitaria. Il porto di Fao, con terminal petrolifero, è dunque di decisiva importanza per lo sviluppo dell’Iraq. Insieme al ripristino delle maggiori centrali elettriche: Dora, a Baghdad, e Baiji, a nord della capitale.
Ma è soprattutto l’immensa torta degli idrocarburi ad attirare le major del petrolio. Messe alla porta nel 1972 da Saddam con un decreto di nazionalizzazione, tornano alla carica per rientrare nel ricco mercato mesopotamico: “L’Iraq è la nuova frontiera, la nuova mecca del greggio” afferma l’amministratore delegato dell’Eni, Paolo Scaroni, che è già stato due volte a Baghdad, l’ultima il 31 dicembre.
I cinesi sono stati i primi ad approfittare dell’opportunità offerta dal ministro del Petrolio, Hussein Sharistani, alle compagnie straniere. In agosto la China National Petroleum e la Zhenhua Oil hanno firmato un contratto da 3 miliardi di dollari per lo sfruttamento dei pozzi di Ahdab.
Un altro accordo è stato sottoscritto con la Turkish Petroleum. Exxon Mobil, Shell, Total, Chevron Amoco e Bp sono in lizza per i giacimenti di Rumaila, Kirkuk, Zubair, West Kurna, Bai Hassan e Maysan.
Per Nassiriya (l’Italia è il secondo importatore di petrolio iracheno) è in corso una trattativa privata, senza gara d’appalto. Ed è questo l’aspetto più controverso, dal punto di vista giuridico, della vicenda.
La nuova legge sugli idrocarburi è bloccata in parlamento per l’opposizione dei curdi, che rivendicano una maggiore indipendenza nello sfruttamento dei campi di Kirkuk. Contenzioso che ha spinto Baghdad a escludere dai futuri negoziati le compagnie che hanno siglato accordi con il governo autonomo del Kurdistan. Sharistani è però deciso ad aumentare la produzione a 6 milioni di barili al giorno nel prossimo decennio. E per questo ha bisogno della tecnologia occidentale. In assenza di normative il ministero del Petrolio si limita a negoziare “contratti di servizio” che prevedono la fornitura di impianti e know-how in cambio di greggio: senza cioè quella condivisione della produzione (”production sharing agreements”) che equivarrebbe, secondo molti deputati iracheni, a una svendita delle risorse nazionali.
La storica diffidenza nei confronti delle “sette sorelle” petrolifere si è manifestata a novembre, quando il parlamento ha bocciato una joint-venture di 4 miliardi di dollari che avrebbe dato alla Shell una posizione di monopolio nel settore del gas. L’accordo, ancora in discussione, assegnerebbe alla società anglo-olandese i diritti esclusivi sull’utilizzo di tutto il gas prodotto nella regione di Bassora.
Le difficoltà non scoraggiano gli investitori italiani: neppure il crollo del prezzo del greggio, che ha costretto Baghdad a rivedere il budget e a tagliare il 40 per cento dei fondi per la ricostruzione. La Drillmec (gruppo Trevi) ha firmato un contratto garantito da una lettera di credito di 104,2 milioni di dollari per la fornitura entro il 2009 di sei impianti di perforazione. E la Edison, interessata alle centrali elettriche, è in corsa anche per aggiudicarsi i giacimenti di gas di Akkas e Mansuriyah, con una capacità di 4-5 miliardi di metri cubi di metano all’anno.