lA MAGISTRATURA ITALIANA HA RIAPERTO IL PROCESSO PER LA STRAGE DI CEFALONIA, L'ISOAL GRECA DOVE ALL'INDOMANI DELL'8 SETTEMBRE LA DIVISIONE ACQUI CHE NON AVEVA DEPOSTO LE ARMI FU MASSACRATA DAI TEDESCHI. TRA I CADUTI DI CEFALONIA CI SONO DUE TORITTESI, IL S.TEN. MARCELLO BONACCHI, MEDAGLIA D'ORO AL VALOR MILITARE,. E IL TEN. DOMENICO CIRILLO, FUCILATO ALLE CASETTE ROSSE, IL LUOGO, A CEFALONIA, DOVE ORA SORGE IL MONUMENTO IN ONORE DEI MARTIRI DELLA ACQUI.GIOVANNI FASANELLA, SU PANORAMA, RIEVOCA LA STRAGE E FORNISCE DETTAGLI SULL'INIZIATIVA DELLA MAGISTRATURA CONTRO ALMENO UNO DEGLI AUTORI DELLA STRAGE.
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«Vuole essere bendato?» domandò il maggiore della Wehrmacht Reinhold Klebe. Il generale Antonio Gandin, dritto sulle gambe, rispose di no. Lo avevano portato sul posto insieme ad altri ufficiali italiani della divisione Acqui, a bordo di alcuni veicoli. E toccò a lui per primo affrontare il plotone d’esecuzione.
Klebe sfilò il foglio con la sentenza di morte dal risvolto della manica della giacca, e la lesse in tedesco. Poi si rivolse, secco e perentorio, all’ufficiale che gli stava accanto: «Adempia ai suoi doveri d’ufficio!» Il sottotenente Mulhauser eseguì: «Alzate i fucili… puntate...» ordinò ai suoi uomini. Un istante prima che partissero i colpi il generale Gandin pronunciò ad alta voce le sue ultime parole: «Viva l’Italia! Viva il re!». Il sottotenente completò il suo ordine: «Fuoco!». Gli otto soldati del plotone, schierati a una decina di metri di distanza, spararono. E il generale cadde a terra privo di vita. Era il 24 settembre 1943.
Quel giorno, nella piana di Casette rosse, sul capo di San Teodoro dell’isola greca di Cefalonia, il sottotenente dei cacciatori delle Alpi Ottmar Leonhard Mulhauser comandò a più riprese il plotone di esecuzione e molti altri ufficiali della Acqui caddero sotto il fuoco tedesco. Ma a un certo punto, forse stanco di dare la morte a soldati inermi, l’ufficiale si sentì male, lasciò il comando del plotone a un maresciallo e si allontanò. Oggi ha quasi 90 anni, Mulhauser. Vive a Dillingen, in Germania. E lì, dopo averlo cercato a lungo, la magistratura italiana lo ha trovato per notificargli una richiesta di rinvio a giudizio firmata da Gioacchino Tornatore, pm del Tribunale militare di Roma.
L’accusa è di «concorso personale nel reato continuato e aggravato di violenza con omicidio commesso contro militari italiani prigionieri di guerra». Con le aggravanti di avere agito per «motivi abietti» e con «premeditazione», compiendo «sevizie e crudeltà» contro le vittime. L’udienza preliminare è stata fissata per il prossimo 5 maggio, alle 9.30. Sarà il gup Antonio Lepore a decidere se ci sarà un processo in Italia, dopo le archiviazioni di due inchieste tedesche; e spetterà a un tribunale il compito di pronunciare una parola definitiva, se possibile, sulla strage di Cefalonia, uno degli episodi più drammatici e controversi della Seconda guerra mondiale.
Dopo che la strage è stata protetta per decenni da un velo di indicibilità, gli storici hanno cominciato a occuparsene soltanto in tempi recenti. Ma per quanto abbiano già accumulato parecchio materiale, molti interrogativi restano aperti.
Si sa che le vittime furono diverse migliaia, ma non se ne conosce ancora il numero esatto: quanti, dei 9 mila uomini della divisione Acqui di stanza a Cefalonia, furono fucilati e quanti, invece, morirono in mare, durante un tentativo di fuga?
La reazione tedesca era in qualche modo legittimata dal «tradimento» italiano dopo l’8 settembre e dalla resistenza opposta sul campo dai soldati del generale Gandin? O si trattò di vere e proprie esecuzioni di prigionieri di guerra, decise a freddo diverso tempo prima? E ancora: Benito Mussolini sapeva dell’ordine di Adolf Hitler e, se ne era al corrente, lo avallò?
Panorama ha potuto esaminare in anteprima gli atti del processo, ancora coperti dal segreto istruttorio. Si tratta di documenti inviati dalle autorità tedesche alla magistratura militare italiana, con i racconti inediti di tantissimi testimoni oculari, militari della Wehrmacht impegnati a Cefalonia nei tre giorni della strage, tra il 22 e il 24 settembre 1943. E, anche se da quelle pagine non dovesse scaturire una verità giudiziaria, sono certamente molti gli elementi per una ricostruzione degli eventi almeno sul piano storico.
Ci fu premeditazione: su questo punto molte testimonianze coincidono. L’aiutante maggiore Georg Bergman, per esempio, ricostruisce i movimenti di truppe tedesche sin dai giorni immediatamente dopo la deposizione di Mussolini, nel luglio 1943. Bergman si trovava in Iugoslavia quando arrivò l’ordine di marciare verso la Grecia e poi, «a sorpresa», di sbarcare a Cefalonia per disarmare i soldati italiani. Ma molti giorni prima di raggiungere l’isola, ricorda il caporale Philipp Kurasch, erano stati formati dei «commando speciali» con il compito di fucilare tutti i militari della Acqui.
L’ordine era di «non fare prigionieri». Ed era stato impartito, prima che iniziassero le ostilità, direttamente da Hitler, racconta il caporale Werner Helmbold. Il 22 settembre reparti del 98esimo battaglione degli alpini tedeschi raggiunsero l’isola. Attraversarono le montagne per prendere alle spalle il grosso della divisione Acqui.
I militari italiani, colti di sorpresa, poco addestrati e male armati, non furono in grado di opporre alcuna resistenza e si arresero quasi subito. Tutte le testimonianze di fonte tedesca concordano anche su questo punto.
Precisi e dettagliati sono anche tutti i racconti su quello che accadde per tre lunghi, interminabili giorni. Helmut Muller, per esempio, non ha mai dimenticato le scene agghiaccianti dei 1.000 prigionieri italiani raccolti in una scuola e poi portati a gruppi di 20-30 in un cimitero vicino, per essere fucilati. Per anni ha vissuto l’incubo di quelle immagini di ufficiali tedeschi che a stento riuscivano a farsi largo tra mucchi di cadaveri, alla ricerca dei sopravvissuti da finire con un colpo di pistola alla nuca.
Il maresciallo Johann Weinsteigen riferisce di soldati italiani che, in ginocchio, imploravano pietà, mostrando santini e fotografie di figli e mogli. Scene frequentissime.
Al pari di quelle, rievocate da altri militari della Wehrmacht, di soldati tedeschi che derubavano gli italiani prima di massacrarli, tanto da indurre diversi membri dei plotoni d’esecuzione a rifiutarsi di eseguire gli ordini.
Poi, conclusa la carneficina, le macabre messinscene per occultarne le tracce. Nelle cave di pietra, dove erano stati ammonticchiati centinaia di cadaveri, vennero fatte brillare delle mine, in modo che il terriccio li ricoprisse. Altre centinaia e centinaia di corpi vennero appesantiti con filo di ferro e gettati in mare. Molti altri ancora vennero caricati su pescherecci che, al largo, vennero affondati simulando naufragi.