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 PRODI AFFONDA IL PD PER RIESUMARE L'ULIVO Data: 16/03/2009
Appertiene alla sezione: [ Opinione ]
di Federico Novella
«Il Pd è la speranza del Paese, serve giustizia sociale, ci vuole una politica di lungo periodo». Corri corri, che in tv in prima serata c’è il nuovo leader del Pd. Lo danno quasi per certo ormai. Ce l’hanno fatta a mettersi d’accordo, meno male. Accendi e nel salotto di Fabio Fazio vedi chi? Franceschini? No, ti entra in casa un pacioso signore bolognese con gli occhiali e una spiccata tendenza al gesticolo, che scandisce una parola ogni quindici secondi. Sulle prime, la cosa che più colpisce è la somiglianza impressionante con Romano Prodi. Poi ti alzi dalla poltrona, ti avvicini allo schermo, guardi meglio: e ti accorgi che è davvero Prodi. Il quale, dopo aver assistito alla veltroneide come un avvoltoio in pensione, a «Che tempo che fa» spara sulle scelte di Walter: «Quando decise di correre da solo, si affacciò Mastella nel mio ufficio e mi disse: “Se volete far fuori me, sono io che faccio prima fuori voi”». E sul futuro: «Adesso bisogna coalizzarsi». Ripartire dal vecchio Ulivo, anche, ché «il progetto di unire i riformisti in parte è stato fatto, ma in parte non è riuscito». Con avvertimento: «Evidentemente il Pd ha fondamento in quest’idea e deve andare avanti, questo è il significato della mia tessera». Il nuovo che avanza si presenta in gessato, tirato a lucido, ha abbandonato il vecchio gilet da anziano. Assicura che «se mi chiamano non torno», come se l’Italia stesse lì a supplicarlo. Era uscito a pezzi, ora ha le movenze del vincitore. Sembra difficile crederlo, ma a quanto pare è lui il volto nuovo del Pd.

Nel partito ripetono d’avere a cuore i pensionati: ultimamente soprattutto uno. Quello che qualche mese fa ha venduto cara la pelle. «Oggi ho rinnovato la tessera, ma è una cosa normale, d’altronde ce l’ho sempre avuta: forse si aspettavano rancore da parte mia?», gongola Romano. Eppure è bastato che il Professore ripigliasse come sempre il tagliando di partito per farli tutti felici, da Franceschini, a Bersani, a Soru. Non li vedevamo così felici dal giorno, vediamo un po’, ecco sì, esattamente dal giorno della caduta del governo Prodi. All’epoca il professor Belzebù era come lo zio pazzo di cui in famiglia ci si vergogna, nemmeno potevi nominarlo. Dopo la sua caduta, quando impazzavano le consultazioni al Quirinale, nessuno gli chiese il bis. Adesso invece è diventato San Romano martire, pare che ogni suo gesto nasconda una rivelazione mistica, insomma «un grande valore morale e politico», come dice Fassino. Prodi resta nel partito? Un «grande valore morale e politico». Prodi ha ordinato un caffè al bar sotto casa? «Un grande valore morale e politico». Prodi ha comprato un chilo di patate al mercato rionale? «Un grande valore morale e politico».

In questo inspiegabile coro di osanna, Prodi intervistato da Fazio fa le fusa, sdottoreggia sulla crisi economica, racconta il nulla in cento modi diversi, per poi sogghignare: «La mia opera comincia ad essere apprezzata, ora nel Pd serve rinnovamento». La banale obiezione di Paolo Ferrero suona come un ritorno alla ragione: «Ma come, ad elogiare Prodi è proprio quel Pd che lo ha buttato fuori?». Sì, sembrano passati secoli: e invece neanche un anno fa, sotto elezioni, la parola d’ordine era una sola: «reset». Dimentichiamo il governicchio, la coalizione sgarrupata, i franchi tiratori, i senatori a vita, i litigi continui, la spazzatura di Napoli, il caso Alitalia, e via prodeggiando. Lasciamogli fare il nonno, lasciamogli il suo gruppo di lavoro sull’Africa, le sue conferenze, le sue lezioncine, i suoi libri. Erano i tempi dell’oblìo, quando Veltroni si sfilava dalla sua ombra: «Il mio sarà un governo diverso». E Rutelli: «La coalizione di Prodi è un caravanserraglio». E Fassino: «Così non possiamo ripresentarci». L’allora premier allargava le braccia: «E meno male che il Pd doveva nascere per stabilizzare il mio governo; in realtà è nato per destabilizzarlo». Una lunga parabola che lo porterà alle dimissioni dalla presidenza del partito. C’era da capirlo: il buon Romano, l’inventore dell'Ulivo, tradito dalla sua stessa figlianza, con il veltroniano Tonini che rigirava il coltello: «Il Pd va tutelato dall’immagine negativa del governo Prodi». Adesso pare che le parti si siano invertite: quasi quasi, è Prodi che va tutelato dall’immagine negativa del Pd. A questo siamo arrivati. Ad attaccarsi a un governo, il suo, che ha vantato il più basso tasso di fiducia tra i cittadini, meno del 30%. Lui ancora ieri in tv assicurava che «il governo sarebbe potuto andare avanti». Ma dici Prodi e pensi a Pecoraro Scanio, ai no global, ai no Tav, ai no su tutto. Dici Prodi e pensi ai tassisti arrabbiati, ai fischi in pubblico, alla pressione fiscale al 43%. La sua presenza cominciò a diventare scomoda già alle primarie (ottobre 2007) quando il veltroniano Bettini ripeteva: «Non possiamo impiccarci al governo Prodi». Ecco, Prodi era come un cappio che strangola: oggi sembra l’unico modo per tornare a respirare. Ed è tutto dire.

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