di Michele Brambilla
I bei fascisti d’antan, che ormai anche gli ex missini si guardano bene dal tirar fuori dal proprio mausoleo, sono stati rimpianti ieri nientemeno che da l’Unità, che all’imminente scioglimento di Alleanza Nazionale ha dedicato quattro pagine, con una fotona in prima titolata «Ultime fiamme».
Tra poco infatti gli eredi del Msi, che a loro volta sono gli eredi di Salò, confluiranno nel Popolo della Libertà e all’Unità non nascondono la nostalgia canaglia. «Dal partito della fiamma al partito del predellino», comincia l’articolo di Oreste Pivetta, che così prosegue: «Visto a che punto siamo arrivati, viene da rimpiangere gli anni in cui nacque il primo, il partito di Almirante, di Romualdi, di Michelini, di Servello, di De Marsanich, di Nencioni».
A noi pareva di ricordare che tutti costoro, a sinistra, piacevano di più a testa in giù. E Pivetta con onestà lo riconosce, scrive che «noi, figli della sinistra ortodossa, guardavamo con orrore» a certa gente, però insomma, noi compagni eravamo «comunque forti della consapevolezza che, siccome inneggiare al fascio era considerato apologia di reato, il partito fascista sarebbe stato di per sé, per titolazione stessa, passibile di cancellazione per via costituzionale, salvo poi frenare chiedendosi dove sarebbero finiti i “neri”». Adesso, invece. Adesso l’Unità scrive che siamo qui a «ritrovarci, sessantatré anni dopo la nascita del Movimento sociale italiano (che qualcuno traduceva in Mussolini sempre immortale) a chiedere la grazia all’erede di Almirante, e ora presidente della Camera, di dare una mano in difesa della Costituzione».
Erano belli, i tempi del manganello e del doppiopetto. I tempi in cui «Roma accolse l’onorevole Giorgio Almirante quando si presentò a Botteghe Oscure nel giugno del 1984», ricorda Pivetta. «Da poco era stata allestita la camera ardente per Enrico Berlinguer e il settantenne capo dei neofascisti italiani, esponente della repubblichina di Salò, Almirante il fucilatore, rese omaggio al grande, amato, indimenticabile capo dei comunisti italiani». C’era anche Giancarlo Pajetta, il partigiano “Nullo”, all’ingresso della camera ardente, e l’Unità rammenta che «l’incontro tra Pajetta e Almirante fu rispettoso».
Altri uomini, altra destra. Mica come quella di oggi. E poveri ex missini. Alleanza Nazionale, scrive il giornale fondato da Gramsci e quasi affondato da Soru, è ahimè «costretta all’angolo dalla voracità compulsiva di Berlusconi». Pivetta, angosciato, ha dentro una domanda che non gli dà pace: «Mi sono sempre chiesto come alcune persone (lo stesso Fini), forti di una cultura politica poco condivisibile ma indiscutibile, potessero ritrovarsi con Berlusconi, onnivoro per gli interessi suoi, del tutto estraneo all’abc della politica».
E così. Sono passati quarantanove anni dalla battaglia di Genova, scoppiata per l’indignazione di fronte alla pretesa del Msi di tenere in città il proprio congresso. Quaranta dalla strage di piazza Fontana e trentacinque da quelle dell’Italicus e di piazza della Loggia, tutte «stragi fasciste», e l’Unità di allora invocava lo scioglimento del Msi. Una trentina dagli anni di piombo e dalla conventio ad excludendum. Solo una quindicina dal grido d’allarme per la presenza di Gianfranco Fini e Alessandra Mussolini ai ballottaggi per l’elezione a sindaco di Roma e di Napoli. Anche allora i fascisti non dovevano parlare. Ora l’Unità pubblica un’ampia intervista a donna Assunta Almirante a sostegno della tesi che si stava meglio quando si stava peggio.
Tipica della cultura di destra, la sindrome del nostalgismo sembra aver contagiato, ormai da un pezzo, quel che resta della sinistra. Prima dei missini erano stati rimpianti a più riprese i vecchi democristiani: quelli sì che avevano radici popolari, quelli sì che avevano un senso dello Stato, quelli sì che sapevano tenere a freno le ingerenze del clero. La rivalutazione di Almirante segue di pochi anni quelle di Moro e Fanfani, di Piccoli e perfino di Andreotti, di Zaccagnini e perfino di Forlani. Tutta gente che per anni è stata dipinta come un branco di ladri, di servi della Chiesa e dell’America, di complici dei mafiosi, di registi della strategia della tensione, di burattinai di servizi segreti deviati.
Si potrebbe pensare che in fondo è quel classico, umanissimo rimpianto del passato che poi è il rimpianto della giovinezza perduta: lo stesso irrefrenabile moto dell’animo che ci porta a chiudere gli occhi e sognare la bicicletta senza cambio, la tv in bianco e nero, la gazzosa con la pallina di vetro, gli immangiabili bastoncini di liquirizia, le interurbane con i gettoni telefonici.
E invece no, invece è l’eterna strategia della demonizzazione dell’avversario del momento, che non solo fa sempre schifo ma è sempre peggiore del precedente. Basterà pazientare qualche decennio per leggere su l’Unità, o su quel che le succederà, un editoriale intitolato «I bei tempi del conflitto di interesse», e un’articolessa su quanto era meglio Berlusconi che in fondo non rubava perché era ricco di suo e poi dava posti di lavoro. Ci sarà, allora, un nuovo mostro da abbattere, un nuovo pericolo per la democrazia. E si scriverà che nel 2009 sì che c’era un governo «forte di una cultura politica poco condivisibile ma indiscutibile», con la Carfagna che comunque aveva fatto la legge sullo stalking, Bondi che sapeva scrivere poesie, Calderoli che almeno una laurea ce l’aveva, Bossi che in fondo era un figlio del popolo, Frattini che non aveva mai un capello fuori posto, Tremonti che s’era inventato la social card. Quanto a Maroni sì, aveva detto che bisognava essere cattivi con i clandestini: ma con i terroni era comprensivo. Può darsi che perfino a Gasparri e Cicchitto troveranno qualche virtù. Così scriveranno, un giorno. Ma noi non ci saremo.