Qualche giorno fa sono stato invitato a Ballarò, il programma di Giovanni Floris. Argomento della puntata, la crisi. C’erano Dario Franceschini, Guglielmo Epifani, Maurizio Gasparri. Non mancavano professori e imprenditori. Al di là delle scaramucce verbali, che in tv sono la regola, a colpirmi è stato il sentimento che aleggiava nello studio. Sentire Innocenzo Cipolletta, attuale presidente delle Ferrovie, già direttore della Confindustria, invocare lo sforamento di bilancio per finanziare la ripresa non è cosa abituale. Così come ascoltare il leader della Cgil che sollecita un intervento dello Stato per aumentare il patrimonio delle banche. Imprenditori, politici e sindacalisti mi sono sembrati tutti uniti nella lotta: una battaglia che porta solo a scassinare il forziere dei conti pubblici.
Certo, capisco che nel momento della difficoltà si chieda allo Stato di fare di più, ma pensare che sia compito suo finanziare gli istituti di credito, le aziende oltre che i loro dipendenti, è una follia bella e buona che, anziché salvarci, rischia di affossarci definitivamente. Lo Stato può intervenire, come ha fatto, con un prestito temporaneo, ma poi si deve fermare. Del resto, quanto resisterebbe un paese che affida il suo futuro solo alla mano pubblica? Quali prospettive di sopravvivenza avrebbe una nazione che, invece di prendere misure rigorose di contenimento della spesa, continua a indebitarsi, raschiando il fondo di un barile già prosciugato?
L’Italia ha il terzo debito pubblico del mondo pur non essendo la terza potenza industriale. E proprio per questo sulla nostra economia volteggiano neri corvacci che ipotizzano uno scenario argentino, al punto che certi speculatori ci hanno messo in cima alla lista dei paesi con cui si può guadagnare scommettendo sul loro fallimento. Dunque, continuare a spendere incuranti dei rischi e degli uccelli del malaugurio è un azzardo che può solo finire male.
E poi, diciamoci la verità, l’Italia è il paese dei sussidi, con finanziamenti a pioggia per tutti, non solo a chi resta senza lavoro. Da noi abbondano i capitalisti senza capitale e certi imprenditori sembrano più preoccupati di ottenere sgravi e cunei fiscali che di fare buoni prodotti. Gli incentivi pubblici già sfiorano il mezzo punto di pil, livello di gran lunga superiore a quello di altri paesi europei. Di questo passo non andremo lontano. Basti ricordare che il governo Prodi nel 2007 fece un taglio fiscale alle società e regalò 700 milioni alle banche: non mi pare che ciò abbia risollevato le sorti della nostra economia.
Scrivo tutto ciò pur essendo uno strenuo difensore della libera impresa. Anzi, credo di essere stato fra i primi a denunciare lo strangolamento delle piccole e medie imprese a opera degli istituti di credito. Ma il problema non si risolve con l’intervento dello Stato: basta solo che i padroni del credito tornino a fare il loro mestiere, concedendo alle aziende medio-piccole le stesse opportunità e le stesse condizioni che sono offerte ai grandi gruppi.
La crisi che stiamo vivendo non è conseguenza di una riduzione dell’offerta, ma della domanda: la gente ha meno soldi o ha paura e perciò non spende. Dunque lo Stato deve muoversi per far tornare la fiducia. A che servirebbe dare soldi a un’industria che produce cose che nessuno compra? Cosa succederebbe se lo Stato entrasse nei capitali delle banche? Rispondo a entrambe le domande: dal regime di assistenzialismo in cui abbiamo finora vissuto passeremmo al regime di statalismo. Ma di uno stato alla bancarotta.