In questi giorni Silvio Berlusconi celebra il suo trionfo. Come ho già avuto modo di scrivere, dalla nascita della Repubblica nessun capo politico era riuscito a ottenere ciò che egli ha ottenuto. Come presidente del Consiglio, il Cavaliere per longevità ha battuto ogni record, compreso quello di un fondista della politica come Giulio Andreotti, che con i suoi governi è stato inquilino di Palazzo Chigi oltre sei anni. Il vero successo del premier non è però la permanenza alla guida dell’esecutivo, ma essere riuscito a radunare i moderati in un’unica casa.
A lungo, nella Prima repubblica, diversi esponenti politici inseguirono l’idea di mettersi insieme per rappresentare uniti gli interessi degli elettori. Ricordo le esperienze a destra e quelle dei cosiddetti partiti laici, gruppi che in genere alle elezioni raccoglievano pochi decimali. Tutti i tentativi fallirono a causa dei personalismi o delle ambizioni. Quando l’impresa pareva l’ossessione di un folle, Berlusconi non solo lanciò l’idea di un fronte moderato che arginasse la sinistra, ma nel corso degli anni affinò il progetto, fino ad arrivare al partito unico del centrodestra. Nessuno, ribadisco, ce l’aveva fatta. Così come nessuno era mai riuscito a portare una formazione politica al 40 per cento dei voti: la Dc, che pure nei suoi periodi migliori era considerata un partito di massa, ci riuscì solo in un paio di occasioni.
Tra le innovazioni che il Cavaliere ha portato nella politica italiana quella certo più significativa è proprio il partito unico del centrodestra. Perché riduce la presenza dei gruppi in Parlamento e perché sancisce la nascita in Italia di un sistema bipartitico. È questa infatti la conseguenza della fondazione del Popolo della libertà. Dopo la creazione del Pdl, sarà inevitabile che anche il centrosinistra, se vuole tornare ad avere un peso, dia vita a un vero partito unico, che non può essere il Pd, ma dovrà essere più ampio, capace di includere tutte le schegge più o meno impazzite che oggi gli gravitano attorno.
Insieme con il Pdl, Berlusconi ha gettato le basi anche per un’ulteriore innovazione, quella costituzionale. Spesso si è discusso della necessità di riformare la Carta e di trovare una forma istituzionale più adeguata ai tempi, come per esempio la repubblica presidenziale. Ma esperti e osservatori concordavano sul fatto che un simile passo avrebbe richiesto un cambio radicale anche nel sistema elettorale. Ricordo un articolo di Indro Montanelli, il quale già nel 1974 indicava la strada presidenzialista, ma intravedeva nell’impossibilità di disporre di un sistema bipartitico uno scoglio insuperabile (il vecchio Indro sognava anche una più accentuata decretazione d’urgenza: paradossi della storia). La via parlamentare era giudicata non praticabile: non si poteva chiedere ai piccoli partiti di fare harakiri e di votare una riforma che li liquidasse. E altre non ve n’erano. Dunque per anni il cambiamento è rimasto un sogno.
Ma Berlusconi il bipartitismo lo ha introdotto per via extraparlamentare, col famoso discorso del predellino. Decisione che ha convinto anche i più riottosi e ha imposto la riforma bipartitica nella prassi, senza bisogno di modifiche elettorali, ma con un progetto politico che traeva forza dal consenso popolare.
A questo punto, al Cavaliere non resta che continuare l’opera: se vuole davvero traghettare l’Italia nel nuovo millennio, ora deve cambiare la Costituzione. È il passo conseguente, ma anche quello inevitabile. Dia alla Repubblica italiana una forma presidenziale, con un capo dello stato eletto direttamente dal popolo e con poteri eguali a quelli che un presidente ha in Francia o altrove. Cambi quelle norme che da oltre mezzo secolo condannano i nostri governi all’impotenza e all’inefficienza a tutto vantaggio dei partiti e dei loro riti. Così supererà se stesso.