di Mario Giordano
lE venne il giorno dell’orgoglio. Se dovessimo trovare una sintesi, alla fine del congresso che ha fondato il Popolo della libertà, sarebbe tutta qui: è stato il «moderati pride», la manifestazione dell’orgoglio di chi da sempre crede nella possibilità di costruire un’Italia diversa. Un’Italia libera e liberale, che non deve obbedire ai diktat dei sindacati, che non deve soggiacere alla cultura (sconfitta) della sinistra. Quel pezzo d’Italia, che da tempo è maggioranza nel Paese, aveva sempre faticato a trovare spazio e rappresentanza nei partiti. Da oggi ha una bandiera. Da oggi ha un’identità definita. Da oggi la maggioranza silenziosa ha trovato una voce.
In effetti, ancora prima che per i contenuti, il congresso del Pdl va letto per il messaggio che ha dato. I toni e i modi erano quelli di un appuntamento importante, senza pacchianate, senza coriandoli e cotillons, senza barzellette né siparietti. Certo, non sono mancati momenti a rischio scivolata: è difficile, per esempio, mantenere l’ispirazione dei momenti solenni quando sul palco devono salire tutti i cespuglietti fondatori, da Caldoro a De Gregorio. Ma alla fine, comunque, si è avuta la sensazione di essere di fronte a qualcosa di importante, non solo perché è qualcosa che cambia la geografia politica nazionale, ma perché dà un punto di riferimento chiaro e visibile a un pezzo d’Italia che finora aveva avuto l’impressione di lavorare molto e di contare poco.
È vero che esistevano già Forza Italia e An, è vero che Berlusconi ha già governato a lungo. Ma è la prima volta che i moderati italiani si vedono rappresentati insieme in una forza che è maggioranza nel Paese. Questo cambia molto, forse cambia tutto. Per la prima volta si è avuta infatti la sensazione, in questi giorni, che la fiera soddisfazione del Popolo della libertà superasse di colpo anni di sudditanza psicologica e culturale nei confronti della sinistra. Sotto quelle bandiere che sventolavano c’era l’orgoglio di chi emerge con un sogno in tasca: si può costruire un’Italia diversa, ora si può davvero fare. È la maggioranza del Paese che lo vuole.
Franceschini non se ne accorge, perché sta in Cile. Di Pietro scivola nei soliti insulti, l’ex intelligente Bersani ripete lo stesso ritornello sulla crisi come un disco rotto. Per trovare uno di sinistra che si rende conto di quello che è successo alla Fiera di Roma bisogna leggere il commento del blogger Zoro, al secolo Diego Bianchi: «Hai presente Roma-Juve? L’inizio della distruzione è quando abbiamo pareggiato. Lì ce ne hanno fatti quattro. Ora pure noi a forza di dire a Berlusconi non sei un democratico, devi fare un congresso, ci siamo trovati con questa dimostrazione di potenza. E allora io penso che a noi certe cose ci fanno venire da ridere, ma non riusciamo ad avere un messaggio unico...».
Ecco, per chi se n’è accorto, in questi giorni la partita ha cambiato segno, anzi si è completamente ribaltata. La sinistra, che storicamente era compatta e dominava culturalmente il Paese, è sbandata. Non riesce a dire una cosa, non riesce a trovare strumenti per capire il mondo. Il centrodestra, invece, ha un luogo, uno spazio, una bussola, un leader, un messaggio. A qualcuno piace, ad altri no. Ma esiste, c’è, si sa che cos’è e si sa che se ne può andare persino fieri. L’Italia moderata può rialzare la testa, può sventolare la sua bandiera. Per troppo tempo ha subìto la prepotenza e l’irrisione della sinistra, per troppo tempo ha chinato il capo di fronte alla sua egemonia. Ora può festeggiare il suo giorno dell’orgoglio. Che è anche il giorno della speranza.