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 IL BLUFF DEL PD SUL REFERENDUM Data: 15/04/2009
Appertiene alla sezione: [ Politica Nazionale ]
Non c’è dubbio che il braccio di ferro sulla data del referendum tra Pdl e Lega rappresenti per Dario Franceschini un asso pescato quasi involontariamente, uno scroscio di pioggia venuto a cadere su un terreno deserto dopo una lunga siccità.

Il segretario del Pd, assistendo alla deflagrazione dello scontro interno alla maggioranza, ha avuto gioco facile a inserirsi e a sposare la richiesta di accorpamento del referendum con le elezioni europee. Una presa di posizione accompagnata dalla denuncia di un possibile spreco di denari pubblici che si avrebbe effettuando la consultazione subito dopo le Europee, come richiesto dalla Lega. Una querelle che sembra avviarsi alla sua conclusione con il sempre più probabile accorpamento del referendum elettorale con i ballottaggi delle amministrative, previsti per domenica 21 giugno.

Al netto delle schermaglie dialettiche e della necessità di trovare un’arma politica da usare contro il centrodestra, il referendum non suscita particolari entusiasmi dalle parti del Pd. Anzi in un momento in cui le velleità di costruire un partito a vocazione maggioritaria appaiono decisamente ridimensionate e si va alla ricerca di una nuova politica delle alleanze il quesito popolare rischia di avere effetti deflagranti anche nello stesso centrosinistra.

Non è un caso che oggi sul Foglio Beppe Fioroni dica sì al referendum ma soltanto a condizione che poi si cambi la legge in Parlamento e chieda alla direzione del suo partito di esprimersi in maniera chiara prima del voto. “Altrimenti” è il suo ragionamento “si rischia di imboccare una strada molto pericolosa, di dare due fregature agli italiani con una scheda sola e ritrovarci con una legge peggiore dell’attuale”.

Il punto è che la legge che uscirebbe dai tre quesiti referendari – nel caso in cui vincano i sì - è un maggioritario secco alla Camera, e un maggioritario regionale, al Senato. Ovvero, il partito che prende più voti a livello nazionale riceve la maggioranza assoluta dei deputati (il 55); in ogni regione, il partito che prende più voti incamera il 55% dei senatori di quella regione. Non sono previsti premi di maggioranza per coalizioni di partiti. Restano le soglie di sbarramento, 8% e 4% ma si applicano ai singoli partiti e non alle coalizioni. Le conseguenze potenziali sono evidenti. Nel quadro politico attuale, se si votasse con la legge che uscirebbe dal referendum, il PdL avrebbe la maggioranza assoluta alla Camera, anche senza la Lega Nord. Al Senato ci sarebbe qualche margine di incertezza in più ma sarebbe molto probabile replicare lo stesso scenario del Senato. In sostanza si avrebbe un sistema bipartitico, con l’aggiunta di pochi senatori della Lega, dell’Udc e dell’Idv. In pratica si tratterebbe di un’assicurazione per la sconfitta per il Pd oltre che di un ridimensionamento politico della creatura post-veltroniana.

E’ per questo che il Pd gioca con convinzione il suo bluff parlando di “Bossi-Tax” e facendosi paladino dell’election day. Ma in cuor suo spera che il governo segua la prassi di sempre e impedisca che il voto per le Europee e quello per il referendum si svolgano nello stesso giorno, così da disinnescare una miccia che rischierebbe di fare esplodere anche, e forse soprattutto, il Partito Democratico.

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