di Bruno Vespa
Chissà se l’hanno mai ripreso, il simpatico Mustafà. È difficile svolgere una ricerca perché, quando lo incontrai nel giugno scorso nel centro di identificazione ed espulsione di Roma, all’immediata vigilia della sua ennesima, inutile espulsione dall’Italia, Mustafà mi dette un cognome diverso dai 26 che aveva fornito alla polizia nell’arco di 17 anni. «Se riuscissero a sapere davvero come mi chiamo, mi manderebbero via» mi disse asciutto.
Nonostante quattro espulsioni, dal 1991 Mustafà non si è mai mosso dall’Italia. È stato arrestato sei volte, in tre occasioni è finito in carcere con condanne a sei mesi: atti di libidine, rissa aggravata, estorsione, danneggiamento, lesioni, resistenza a pubblico ufficiale. Appena sbarcato (forse) da Casablanca con un visto turistico, ha gettato i documenti e ha cominciato l’attività di clandestino libero professionista. Dopo il nostro incontro, infischiandosi ovviamente del quarto decreto d’espulsione, sarebbe andato prima vicino a Foggia per raccogliere pomodori, poi in Calabria per le olive e infine in Sicilia per le arance. Parole sue, con tanto di dettagli sul trattamento economico e la profonda antipatia verso i romeni che, dice, sono inaffidabili e pericolosi. Alle richieste di identificazione, Algeria, Tunisia e Marocco hanno risposto picche.
E così Mustafà è uno dei nostri. Come lo saranno i 1.038 clandestini rimessi inopinatamente in libertà perché il Parlamento ha bocciato la proposta di trattenerli per sei mesi invece dei due consentiti oggi.
Su questa storia bisogna intendersi senza ipocrisie. Sono stato a Lampedusa, ho parlato con gente appena sbarcata, ho ascoltato racconti di sofferenze che sarebbe disumano augurare al peggiore nemico. Nessuno di noi può immaginare che cosa provino le donne violentate ai diversi posti di blocco libici e quanto sia doloroso pregare tutti a voce alta quando il mare s’ingrossa. Nessuno di noi saprà mai quante migliaia di speranze siano finite in fondo al Mediterraneo. Fanno bene, dunque, le nostre navi a fare quel che né la Spagna né Malta (i due paesi più vicini ai luoghi d’imbarco dei migranti) farebbero mai.
Al tempo stesso, non è immaginabile che l’Italia risolva da sola il problema della disperazione africana. Perché l’eccesso di tolleranza e perfino di carità porta fatalmente agli eccessi xenofobi. Le immagini di degrado di via Cairoli a Padova, filmate dall’ultimo italiano che abita in quella strada invasa da stranieri irregolari e trasmesse dal Tg1 domenica 26 aprile, valgono più di cento dibattiti televisivi e parlamentari.
Dunque? Dunque occorre mettere la pietà d’accordo col buonsenso. L’iniziativa di spingere i medici a denunciare il clandestino bisognoso di cure è un atto di inutile crudeltà sociale, oltre che una violazione del codice deontologico sanitario. Ma portare da due a sei mesi la permanenza dei clandestini nei centri è il minimo che si possa fare per avere qualche pur ridotta possibilità di restituire i migranti ai paesi d’origine.
Un dirigente del settore immigrazione mi ha detto che sotto il profilo tecnico forse quattro mesi potrebbero bastare. Però va valutato un aspetto accessorio. Finora l’esercito di Mustafà in giro per l’Italia ha considerato i due mesi nei centri un incidente di percorso. Se questi mesi diventassero sei o ancora di più (l’Europa ne autorizza non a caso fino a 18), probabilmente l’Italia diventerebbe un mercato meno appetibile.
Naturalmente il problema va affrontato in radice, con formidabili investimenti occidentali nei paesi africani. Ma nell’attesa tutti i dirigenti politici provvisti di buonsenso badino a non trasformare l’Italia in un’anticamera di via Cairoli a Padova.