Perché è difficile il dialogo tra lo Stato e la Chiesa
JOAQUIN NAVARRO-VALLS(ex Portavoce della Santa Sede)
Le recenti dichiarazioni del Presidente della Repubblica a proposito di una nuova fioritura dei rapporti tra Stato e Chiesa hanno riacceso un dibattito culturale molto attuale, e non solo nella società italiana. È chiaro, infatti, che le sue parole non intendono riferirsi soltanto alla positiva fecondità di un dialogo tra istituzioni, che esiste già, ma a qualcosa di più decisivo ed importante: trovare una base comune di valori condivisi. D´altra parte, si deve riconoscere che è la stessa situazione di oggi, con i suoi problemi e le sue ambiguità, a reclamare punti di riferimento di questo tipo.E oggi, sotto molti aspetti, il clima sembra essere meno ideologico che in passato, più consapevole della portata antropologica di molte opzioni non risolvibili sbrigativamente e temporaneamente con un semplice accordo contrattuale tra i protagonisti. Sappiamo bene poi quali siano i problemi davanti ai quali l´uomo deve scegliere oggi di se stesso e del destino comune: la guerra, il conflitto tra le diverse civiltà, il crescere della violenza urbana, l´emergenza ecologica, le nuove ed antiche sacche di povertà e, soprattutto, i temi legati alla natura e alla dignità umana, ai vincoli interpersonali, come, ad esempio, l´istituto familiare. Essi non sono più soltanto argomenti di studio per sociologi raffinati, ma problemi effettivi di vita quotidiana con cui doversi necessariamente confrontare in modo adeguato. Se vogliamo evitare che la discussione su questioni così risolutive imbocchi una vera e propria deriva simile ad un "sentiero interrotto", come il filosofo Martin Heidegger descriveva l´iter del suo pensiero, non dobbiamo limitarci soltanto ad analizzare in profondità questi problemi, ma dobbiamo trovare risposte che siano razionalmente soddisfacenti, non ambigue e, se possibile, stabili. Qui emerge la prima grande difficoltà. Il dialogo, infatti, richiede necessariamente la condivisione almeno di qualcosa in comune; ma trovare in antropologia una base di valori comuni significa affermare, in ultima istanza, una "verità" sull´uomo. Oggi sembra, invece, che il pensiero moderno senta faticoso questo riferimento alla verità. Sembra che si possano accettare soluzioni comuni, solo se si ottengono accordi temporanei, contrattando scelte individuali, perché parlare di bene comune evoca una nozione assolutista della verità, ritenuta incompatibile con il pluralismo delle nostre società. Dobbiamo chiederci, però, se è veramente così. Possiamo accettare cioè una premessa traballante come presupposto di partenza per il dialogo? La prima osservazione che dobbiamo fare è proprio di tipo antropologico. Quando parliamo dell´essere umano, infatti, parliamo di noi, di quel esistenziale nostro modo di essere che è un "mistero", come amava dire Gabriel Marcel. Se ci rivolgiamo alla riflessione classica, ci accorgiamo che i grandi filosofi non hanno mai smesso di pensare questo "mistero dell´uomo", senza tuttavia mai dissociarlo dalla "verità". Questi due aspetti si implicano talmente che un filosofo come Platone affida al misterioso linguaggio poetico la descrizione delle grandi passioni umane. D´altro canto, "mistero" e "verità" trovano una loro centralità antropologica anche nella visione moderna, da cui abbiamo preso le mosse all´inizio, interamente concentrata sulla libertà individuale. Io credo che il punto sia proprio questo, perché è proprio il relativismo che destina al fallimento certo ogni possibile ricerca di una base comune di valori. Andando a fondo nella lettura delle riflessioni filosofiche, infatti, si trovano delle sorprese inaspettate. Quando, ad esempio, un autentico padre della modernità come Tocqueville descrive la società liberale americana non si accontenta di riconoscere soltanto la sua imprescindibile base individualistica, ma apprezza le conseguenze positive e gli impegni effettivi che derivano da essa. La libertà personale è, infatti, un presupposto etico che obbliga e reclama un impegno decisivo del singolo verso la propria verità, e non soltanto l´indipendenza del singolo da ogni valore, da ogni condizionamento e da ogni responsabilità. Parlare di libertà personale è riconoscere il primo, vero ed autentico pilastro di una consistente visione dell´essere umano e della società, ma non un valore unico ed esclusivo che possa fare a meno dell´impegno effettivo di se stessi. La libertà implica sempre un orientamento attivo dell´individuo nella direzione di un obiettivo comune che deve costituire l´approdo e la direzione verso cui procede tutta l´umanità, una specie di "bussola" che dia direzione ai diversi percorsi di vita. Certo, se manca la libertà individuale, i diritti personali sono abusivamente calpestati, ma anche senza un chiaro obiettivo il singolo smarrisce il suo senso, perdendo alla fine se stesso. Il valore, ad esempio, della famiglia riposa esattamente in questa stretta relazione di libertà e verità umana. Tutto ciò sembra essere stato riconosciuto anche da un altro filosofo della tradizione liberale americana come John Rawls, il quale non ha potuto rinunciare a criteri oggettivi di giustizia, sia pur minimi, per fondare una società equa e vivibile. Tutto ciò avviene perché l´uomo non può limitarsi a "conservare" la libertà, ma deve "usare", quasi direi "sperperare", la sua stessa libertà in modo permanente e duraturo, sacrificando per sempre altre possibilità. È questa la peculiarità umana: ogni volta che dice di sì a qualche cosa o a qualcuno sta simultaneamente dicendo di no al resto delle infinite possibilità esistenziali. La scelta umana implica sempre la razionalità di ciò che si sceglie e l´esclusione del resto. L´alternativa è il disimpegno e la dissipazione di se stessi, la quale, con l´instabilità, produce solitudine, angoscia e disperazione. Nella vita è chiaro che siamo chiamati a delle scelte precise, anche se fortunatamente non sono molti i momenti in cui siamo chiamati a delle scelte "stabili" e "definitive". Tali appuntamenti della vita ad un certo punto però arrivano inesorabilmente, e allora bisogna essere pronti: una scelta professionale, un impegno familiare, quando decidiamo di impegnarci in qualcosa, o, addirittura, quando scegliamo di non impegnarci per niente. Nei casi difficili della vita, ci accorgiamo che pochi margini di relatività ci sono concessi, misurando la fragilità della nostra libertà, ma anche la nostra relazione personale con la verità. Infatti, nei casi estremi, quando ad esempio sbagliamo, sentiamo che tutti falliscono con noi, mentre quando abbiamo successo, il risultato personale di una scelta "eroica" non resta mai soltanto individuale. Davanti alla morte di un amico, Agostino d´Ippona diceva di aver trovato se stesso. E noi sappiamo che egli, passando attraverso l´atroce esperienza del dolore, aveva anche oltrepassato se stesso, trovando la trascendente verità della sua vita. Certamente, ognuno cerca di fare le proprie scelte responsabilmente e serenamente, perché l´unico vero presupposto errato, alla fine, è pensare che si raggiunga una maggiore libertà, separandosi da tutti, non scegliendo mai "per sempre" qualcosa ed espellendo, in tal modo, le scelte definitive dalla propria vita. Sottraendosi alla verità, si rinuncia soltanto ad impegnarsi in qualcosa di importante, scegliendo alla fine di non scegliere, e rinunciando, così, insieme alle proprie responsabilità, ad essere autenticamente liberi. A quel punto, come avviene per l´Oblomov di Goncarov, sono gli altri a scegliere per noi. Se Pascal ha potuto scrivere che "la più alta vetta della ragione è riconoscere un´infinità di cose che la sorpassano" è certamente perché tra di esse è inclusa l´imprescindibile verità che guida tutti al bene che può essere comune a tutti.