Vuoi vedere che sarà proprio il Partito democratico ad uccidere Romano Prodi? Vuoi vedere che sarà proprio la sua creatura, che doveva essere nuova e rivoluzionaria, a spedire sotto i portici di Bologna il professore prima del tempo?
La notte appena passata è stata a Santi Apostoli una notte dei lunghi coltelli. Pare se le siano dette, i Ds e i Dl per via del comitato dei saggi e poi dello speaker e poi ancora del leader e dell’assemblea costituente.
E poi Prodi, il bersaglio preferito, a rivendicare il suo ruolo di innovatore della politica, a minacciare ancora una volta “o così o me ne vado”, a dire che “il leader del Pd non può essere diverso dal premier” e i musi lunghi che lo stavano ad ascoltare.
Pare chiaro ormai che i becchini del governo Prodi sono i suoi stessi azionisti, che ormai nell’area Ds-Margherita si sta facendo avanti con prepotenza l’idea di cambiare registro e di affidarsi a qualcun altro per una nuova fase che tenti di superare lo stallo.
Eppure il professore non molla. E’ tenace. Spera contro speranza. E contro l’evidenza che inchioda l’Unione ad una sconfitta pesante nelle amministrative di domenica scorsa. La lotta nel Pd è essenzialmente lotta di potere e per questo il nuovo partito è già un totale fallimento. Le prime avvisaglie si sono avute dalle urne di domenica.
La presentazione di una lista unitaria Ds-Dl è stata un fiasco con cali di percentuali paurose rispetto alle elezioni precedenti quando i due partiti si presentarono separati.
La questione della leadership sta logorando i rapporti tra le varie componenti del Pd, tanto da portare Prodi ed il suo governo ad un passo dalla rovinosa caduta. Ed infatti dal vertice notturno è uscita l’ennesima mediazione che scolorisce ancor di più il già scialbo Partito democratico. Prodi sarà presidente, mentre a breve sarà scelto il segretario.
Una finta diarchia che da un lato accontenta Prodi, trasformato in una sorta di padre nobile e di fatto esautorato del nuovo soggetto politico, dall’altro apre una guerra feroce su chi sarà il manovratore del partito.
Perché la vera questione è la decisione di Ds e Margherita di mollare Prodi, ritenuto con i suoi atteggiamenti ondivaghi e con gli scarsi risultati del suo governo, il principale responsabile della debacle elettorale di domenica scorsa.
Molti tra i gerarchi dei due partiti mormorano, nemmeno sottobanco, della possibilità di un nuovo governo “istituzionale” che possa cambiare la legge elettorale e portare l’Italia alle urne in un tempo ragionevolmente breve.
Prodi, dunque, è isolato. Resiste nel suo piccolo e fragile fortino. Resiste soprattutto al fuoco amico dei vari Rutelli e D’Alema. Resiste, ma fino a quando? Tra sei giorni, tanto per dirne una, arriva al Senato la discussione sul caso Visco-Gdf.
C’è da discutere due mozioni per privare il viceministro della delega sulle Fiamme Gialle. Una è dell’opposizione, l’altra è stata presentata da Di Pietro che in questi giorni è stato durissimo con l’esponente diessino.
La tenuta del governo qui è ad altissimo rischio, tenuto conto dei numeri del Senato. Tra qualche settimana si parlerà di Dpef e già Giordano di Rifondazione ha detto chiaro e tondo che non ci saranno sconti sulla politica economica di Padoa Schioppa.
Il Partito democratico è un nebuloso rebus, il governo è alla frutta, i diadochi già pensano alla spartizione dei resti della stagione di Prodi.
E lui il professore, mollato definitivamente, pensa di resistere sulle macerie fumanti di un governo che non doveva nemmeno nascere.
Resiste, ma in cuor suo ha capito che questo sono veramente gli ultimi malinconici giorni di un’esperienza fallimentare. Soprattutto per l’Italia.