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 IL COMUNE SENSO DEL DIRITTO, OVVERO QUANDO LA GIUSTIZIA NON FUNZIONA Data: 10/07/2007
Appertiene alla sezione: [ Il commento del giorno ]
La rabbia nel cuore, l’amaro in bocca, nella mente la consapevolezza di combattere contro il mulino a vento di una giustizia rigida e strabica che tiene in gran conto le ragioni dei colpevoli e tende a oscurare il sofferto diritto delle vittime. Il processo che ieri si è aperto, ad Ascoli Piceno, contro Marco Ahmetovic - giovane rom che ha falciato e ucciso nello scorso aprile, guidando ubriaco un furgone, quattro ragazzi ad Appianano del Tronto – diventa una dolorosa metafora dell’incapacità del nostro schizofrenico sistema penal-giudiziario di far combaciare la volontà delle leggi con le aspettative dei cittadini, con il comune senso, accettato e riconosciuto, del diritto e del rovescio, del delitto e del castigo.
Pensate, la strage di Appianano non è stato un qualsiasi incidente stradale. Può capitare che un automobilista sbagli e abbia la sventura di uccidere un pedone o un ciclista; a quell’automobilista si applicano le pene, tutto sommato miti, previste per l’omicidio colposo, con tutte le attenuanti e i buonismi di legge. Ma un giovane che, ubriaco, si mette alla guida e falcia quattro ragazzi si pone al di là delle norme sull’omicidio colposo, indica un comportamento criminale di fronte al quale la nostra legge pallida e pavida è sostanzialmente impotente. Perché datata, perché scaturita da una società più coesa e più legata a schemi di dovere che sembrano ormai lontani. Una società sostanzialmente chiusa, nella quale non irrompevano stranieri impazienti e talvolta violenti, che nel nostro mondo consumano quegli eccitanti che nella loro società d’origine, per motivi sociali od economici, non potevano permettersi. Siamo una società aperta, anzi sbracata, gli incidenti stradali di un certo tipo, spesso per colpa di extracomunitari ubriachi o drogati, costituiscono un’emergenza e un monito statistico, ma la legge resta quella di un’altra Italia, più composta, meno ricca e con meno discoteche.
Ecco che l’udienza di Ascoli Piceno diventa una semplificazione drammatica della sofferenza nazionale. Il colpevole di quella strage è a un passo dalla scarcerazione e, comunque, potrebbe essere ammesso al patteggiamento e cavarsela con tre anni e mezzo di detenzione da scontare, si capisce, al mare. I parenti delle vittime gridano il loro dolore senza fondo e senza fine e poiché avvertono la lontananza della giustizia formale e sono tentati dall’azione immediata, dalla violenza che a loro parere sarebbe risolutrice e giusta. Il giudice che ha presieduto l’udienza ha usato, immaginiamo, prudenza e rispetto delle norme. Prevedendo la tensione che sarebbe scaturita dall’udienza, ha anche minacciato di tenerla a porte chiuse. La situazione è sfuggita di mano a tutti e non si capisce quale scopo avesse l’intermezzo della donna misteriosa che ha creato scompiglio esprimendo solidarietà all’imputato. Tutto è perduto in un sistema che non ha più autorevolezza e capacità di ridare fiducia ai cittadini. Nulla da dire, ad Ascoli Piceno la legge è stata e sarà rispettata, ma è una legge che appare ai più sideralmente lontana dai bisogni della gente. E sostanzialmente ingiusta.
Salvatore Scarpino

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