di Giordano Bruno Guerri -
Che Benito Mussolini e Claretta Petacci siano stati uccisi da un gruppo di partigiani è l’unica certezza di quell’oscuro episodio della nostra storia recente. Dopo essere stato catturato mentre tentava di riparare in Svizzera, per il duce il destino era segnato. Gli americani avrebbero preferito processarlo, come sarebbe stato fatto per i gerarchi nazisti a Norimberga. Di diverso parere erano gli inglesi, anche se probabilmente sono più leggendarie che attendibili le teorie per cui la Gran Bretagna temeva presunte rivelazioni di Mussolini a proposito della corresponsabilità di Winston Churchill sull’entrata in guerra dell’Italia. Per i partigiani invece non c’erano dubbi: il duce doveva morire - e subito - per un atto di «giustizia popolare», come responsabile di vent’anni di dittatura, della guerra e della successiva guerra civile. Erano motivi più che sufficienti, soprattutto per i partigiani comunisti di ogni ordine e grado, per «giustiziare» Mussolini senza bisogno di alcun processo. Nei vertici della Resistenza, invece, c’era anche la lucida e spietata volontà politica di evitare un processo nel quale il duce avrebbe avuto più di uno strumento per difendersi, chiamando gli italiani alla corresponsabilità sia riguardo al fascismo sia riguardo alla guerra, di cui erano stati entusiasti finché l’avevano creduta facilmente vittoriosa. Inoltre un Mussolini vivo avrebbe moltiplicato all’infinito l’entusiasmo dei fascisti vinti, rendendo ancora più difficoltosa l’opera di «pacificazione» violenta compiuta con vere stragi, anche dopo la fine della guerra, come ha dimostrato di recente Giampaolo Pansa, e - molto tempo prima - Giorgio Pisanò, inascoltato in quanto fascista, neanche ex.
Se è chiara la volontà di uccidere il Duce quanto prima e senza testimoni, a tutt’oggi non sappiamo con certezza né come né dove sia avvenuta la fucilazione. E neppure chi fu a sparare i colpi mortali. Per cui - paradossalmente - di certo sappiamo soltanto che non è vera la versione ufficiale accreditata dai comandi partigiani. Al mistero sull’esecuzione e sugli esecutori si aggiungono i dubbi su come sia scaturita la decisione da parte del Comitato di Liberazione Nazionale, che fornì una propria verità, opinabile come sempre è opinabile la storia scritta dai vincitori. Se la storiografia non è stata in grado di accertare la realtà dei fatti e delle responsabilità, ci riuscirà la magistratura? C’è da dubitarne, in mancanza di documenti, o con documenti di parte; e in mancanza di testimoni o con testimoni di parte. Tuttavia ha grande interesse, anche storiografico, l’iniziativa presa da un nipote del Duce, Guido Mussolini, perché l’intera vicenda venga riesaminata penalmente. Infatti il prossimo 27 settembre il gup Nicoletta Cremona, del tribunale di Como, valuterà il decreto di opposizione alla richiesta di archiviazione presentata nei mesi scorsi dal pm Maria Vittoria Isella: secondo la quale non ci sono gli estremi per procedere ulteriormente, da un punto di vista giudiziario e penale, sulla vicenda. Secondo l’avvocato Luciano Randazzo, rappresentante del nipote del duce, si tratta «di una grande vittoria perché per la prima volta si mette in dubbio che la morte di Mussolini sia conseguenza dell’esecuzione di una sentenza emessa da un organo istituzionale». Si vorrebbe dimostrare, insomma, che l’uccisione del duce, fu un puro e semplice omicidio.
È una tesi che può avere un fondamento giuridico, nel caso si dimostrasse che chi decise la morte di Mussolini non aveva l’autorità per farlo. Dal punto di vista storiografico, invece, cambia poco: né i capi partigiani né i gregari hanno mai rinnegato la volontà di «fare giustizia». E non ci si può davvero scandalizzare che, al termine di una sanguinosa guerra civile, il capo della parte sconfitta venga eliminato senza tante storie. Ma, se ci sarà un processo, servirà a riconsiderare - nella coscienza del Paese - verità per troppo tempo date per scontate: ben venga.