2007, fuga dall’Unione
L’inizio della grande fuga dall'Unione. Questo disegna la rapida sequenza in cui Francesco Rutelli ha lanciato il suo «manifesto dei coraggiosi», Lamberto Dini ha invitato Romano Prodi a non restar prigioniero della «sinistra sinistra», Nicola Latorre ha reso esplicita la necessità dalemiana di dialogare con Berlusconi, Piero Fassino ha annunciato di guardare anche lui al modello elettorale tedesco, Emma Bonino ha riconosciuto che era meglio tenere lo scalone di Maroni ( DIFATTI HA RINMESSO IL MANDATO NELLE MANI DI PRODI) E chissà cos'altro vedremo.
Se in Parlamento resta l'impegno a sostenere Prodi, costi quel che costi, fuori la priorità comincia ad essere un'altra: attrezzarsi per il dopo. Non è il «complotto centrista» di cui ha parlato Oliviero Diliberto. È più semplicemente la presa d'atto del fallimento di una storia e, quindi, dell'impossibilità di continuare a reggere ancora a lungo e di governare con l'antagonismo e il massimalismo. Il tentativo di salvarsi dal disastro e di disegnare una via di salvezza. Ciascuno per sé.
In gergo politico, si chiama ridislocazione. Si pensa a nuove alleanze, come hanno detto esplicitamente Rutelli e implicitamente altri. Si dichiara pubblicamente di guardare ad un altro orizzonte. Si lanciano segnali. Cosa è successo? Probabilmente è suonato il momento della consapevolezza del fatto che le due sinistre non possono continuare a stare insieme, perché - è solo questione di tempo - sono entrambe destinate alla marginalità. Si è capito che è impraticabile il disegno, enunciato ecumenicamente da Veltroni al Lingotto, di spostare su una barra più moderata l'alleanza, così come si è configurata negli anni, e preservarla per il futuro, affidandola al leader di ricambio. E che le possibilità di sopravvivenza di ciascuna forza non sono più affidate alla durata del governo - secondo la vecchia massima andreottiana del potere che logora chi non ce l'ha - ma alla singola capacità di distinguersi e di differenziarsi, almeno a parole e nelle intenzioni.
È l'esaurimento dell'Unione, con il suo tratto distintivo che ha ridotto l'Italia ad essere l'unica grande democrazia avanzata in cui la sinistra riformista si è volontariamente offerta in ostaggio alle culture politiche antagoniste e massimaliste. Portandola alla paralisi, all'ingovernabilità, al blocco della modernizzazione. Con un paradosso: finisce una strategia e si decompone l'alleanza che l'ha sostenuta, ma non finisce il governo che l'ha espressa. E con una conseguenza: si annuncia la divisione in due aree distinte di uno degli schieramenti del bipolarismo italiano, ma la si rimanda al futuro, a quello che tutti definiscono il «dopo Prodi», che però non comincia perché nessuno nel centrosinistra ha il coraggio di sancirlo.
Così Rutelli, Dini, D'Alema, Fassino, Bonino e chissà quanti altri ancora annunciano la loro fuga dall'Unione, ma cercano di guadagnare tempo, di rinviare la crisi e nuove elezioni, offrono il dialogo a tutti, non solo a Casini e Bossi, ma anche a Berlusconi e Fini, sperano in una legge elettorale che li salvi, magari trasformando il bipolarismo in un tripolarismo o ritornando al proporzionale. È la lunga fine della stagione fallimentare della sinistra italiana.