Pagina a cura di Giuseppe Paccione nella occasione della ricorrenza dell'11 settembre.
Non si potrebbe non menzionare l’orrore di quel che è accaduto quell’11 settembre nella città di New York, un orrore che i mass media hanno seguito momento per momento, contro un cielo terso. Quelle immagini che avrebbero potuto farci vedere l’incredibile bellezza della più grande metropoli del pianeta, ci hanno dato un’esemplare lezione sulla forza dirompente che può raggiungere il male sostenuto dall’odio, probabilmente solo qualche brutto film di fantapolitica può aver fatto intravedere qualcosa del genere, anche se proprio la cifra illusoria dello spettacolo, irreale e fittizio, sa esorcizzare i frutti assurdi di fantasie deformi e malate. Qui, al contrario, i piccoli segni di terrore nel cielo si sono rivelati uomini come noi, quella polvere cinerea, che ricopriva persone e cose della vita quotidiana, ha iniziato a soffocare anche noi come un nodo stringente. Infine, il numero sempre più crescente di feriti, di dispersi, di morti…non si era mai visto nulla di simile, neppure nella storia del secolo scorso che non manca di mostruosità incalcolabili. La ragione non ha, tuttavia, tardato a mettersi in moto, ed una serie di punti fermi viene a soccorrerci e a sottrarci con il volgere delle ore alla pura e semplice onda delle emozioni.
Non basta la memoria di Pearl Harbor (base navale delle isole Hawai): atto di guerra, finché si vuole vile, ma condotto da militari di uno Stato (il Giappone) contro la potenzialità strategica di un altro Stato (gli Stati Uniti). Quel che è accaduto, nel settembre del 2001, a New York e a Washington D.C. è, invece, qualcosa di oscuro che moltiplica – se è possibile – l’orrore anche per il carattere indiscriminato dell’attacco e la fortuità degli obiettivi, largamente simbolici: il centro degli affari (il World Tarde Center) e quello dell’organizzazione militare (il Pentagono).
Al contempo, noi dobbiamo rammentare il ruolo degli Stati Uniti nel secolo scorso: siamo tutti debitori per tre interventi contro il nazionalismo egoistico, contro il totalitarismo e contro la più spaventosa macchina politico-ideoligica di tutti i tempi, con ambizioni di dominio planetario.
Ciò non indica, ovviamente, che il giudizio storico non possa e non debba porre in risalto errori e lacune nelle scelte dell’ultima superpotenza sopravissuta al tornante del millennio, ma ciò non comporta distanze nella solidarietà e separatezze nell’ora della prova. Antichi avversari dimostrano di averlo compreso, ed è già un motivo di consolazione e di speranza. A maggior ragione, chi ha sempre nutrito per gli Stati Uniti riconoscente amicizia viene invitato a ragionare sugli avvenimenti che incalzano ed a formulare preoccupazioni ed auspici per il futuro.
La repubblica agreste che i visitatori della grande nazione americana avevano in mente nell’ottocento, è davvero finita. Occorre allora ricordare la lezione di Alexis de Tocqueville, che vedeva nella solitudine, nella separatezza degli Stati dalla politica internazionale del tempo il miglior fondamento del loro esperimento di libertà e democrazia. Oggi gli oceani e le distanze non garantiscono più il nuovo mondo dalle volontà aggressive, specie di gruppi minoritari protetti dalla straordinaria mobilità contemporanea e dallo stesso volume degli scambi. Per quanto concretamente assediati, gli Stati Uniti non possono, però, rinunciare alle ragioni stesse della loro esistenza: la libertà, la giustizia per tutti, il fondamento religioso della convivenza civile. Due tentazioni affliggeranno, adesso, il vitale ruolo planetario della Super Potenza. C’è il palpito alla vendetta, che è altra cosa rispetto alla giustizia, ed è bene riconoscerlo nell’ora più drammatica della storia contemporanea. Ma i problemi e le malattie che affliggono la società del pianeta, in questo terzo millennio, non possono essere curati da altre bombe, altre distruzioni, altri massacri. Tocca alla politica, cioè alla diplomazia e alle istituzioni internazionali affrontare e risolvere le questioni pendenti, rimuovendo le cause e interrompendo, con coraggiosa determinazione, la fatale catena di azioni e reazioni, precorritore solo di nuovi lutti e odio sempre rinascente. Agli argomenti della forza deve subentrare finalmente la sovranità del diritto.
Più subdola è la tentazione dell’isolazionismo, il peccato di orgoglio di una impossibile separazione dal resto del mondo, da abbandonare alle potenzialità distruttive del fanatismo e del terrore. Ben conosciamo l’ammonimento di George Washington sul distacco da tenere dagli intrighi e dalle ambizioni degli Stati europei. Ma le bellicose dinastie di un tempo non esistono più, e anzi la comunità internazionale è stata riplasmata dagli ideali dei padri fondatori degli Stati Uniti. Il vecchio mondo e quello nuovissimo del Sud del pianeta si sono ampiamente ispirati al modello statunitense, la cui sfida è argomento quotidiano di confronto e di competizione. Come potrebbero gli Stati Uniti rinunciare alle loro radici, ad una realtà che sempre di più è figlia loro, se pur talora ingrata e in comprensiva, fino al crimine e alla distruzione di massa?
Davvero la storia non è finita, ma sgrana, instancabilmente, nuove sequenze, nuovi drammi, nuove speranze. Giovanni Paolo II, che ha sofferto un’esperienza personale della forza di un odio misterioso, ci invita a pensieri di saggezza e propositi di pace. Vale per gli statunitensi nei giorni della prova e vale per tutti noi, già storditi dal miraggio dell’espansione illimitata dei desideri e volutamente sordi ai focolai di disperazione che si fanno germi di incontenibile violenza.