di Emanuela Fontana da "Il Giornale"
Aveva appena vinto per 24mila voti, meno di un quartiere, una goccia nell’oceano di oltre 39 milioni di italiani andati alle urne, ma Romano Prodi fin dal primo giorno dopo le elezioni politiche del 9 e 10 aprile 2006 aveva chiarito: «Governeremo per cinque anni, la legge ce lo permette». Nelle prime settimane del governo Prodi da più parti si suggeriva una gestione, se non proprio sul modello tedesco della Grosse Koalition, quantomeno di larghe intese sulle nomine che contano. Ma la fame di potere è stata più forte dei numeri: saltato l’accordo sulla presidenza del Senato, dove pure il vantaggio del centrosinistra era risibile, svanita anche l’ipotesi di collaborazione sulla nomina del capo dello Stato, quel languore di poltrone è diventato presto un ingordo modus operandi senza spazio per l’avversario. In un mese l’Unione aveva dunque piazzato le prime due pedine: Franco Marini (Margherita) a Palazzo Madama, dopo il rifiuto alla possibile candidatura bipartisan di Giulio Andreotti (che aveva dato la disponibilità) e Giorgio Napolitano, già ministro di centrosinistra e dal passato comunista, al Colle. Ogni nomina successiva è stata gestita sempre con lo stesso spirito: l’occupazione dei posti di comando, senza badare a quell’altra metà d’Italia che aveva votato per il centrodestra. Lo spoil system tornato al suo significato originario di spartizione del «bottino».
Dopo l’uno-due di Senato e Quirinale, nel mezzo della bufera sul campionato di calcio malato, c’è stata la nomina di Francesco Saverio Borrelli, ex pm di Mani Pulite, magistrato simbolo della sinistra, a capo dell’ufficio indagini della Federazione italiana gioco calcio. Poi l’operazione Rai: l’Unione ha costruito e ottenuto la nomina per la direzione generale di Claudio Cappon, benché un uomo del centrosinistra, il ds Claudio Petruccioli, fosse già stato nominato (durante il governo Berlusconi), presidente a viale Mazzini.
Al Tg1, un anno fa Clemente Mimun è stato sostituito con il vicedirettore del Corriere della Sera, vicino all’Unione, Gianni Riotta. Alla fine dello scorso anno circolarono voci su una presunta ingerenza del governo nella nomina del nuovo direttore dell’Ansa in sostituzione di Pierluigi Magnaschi. Si disse che Prodi avrebbe gradito un suo uomo. Ma poi gli azionisti scelsero la soluzione interna con Giampiero Gramaglia. Dall’informazione alla cultura: a Cinecittà Holding il vicepremier e ministro dei Beni culturali Francesco Rutelli ha inserito come presidente Alessandro Battisti, ex senatore della Margherita e come amministratore delegato Francesco Carducci Artenisio, fedelissimo dell’ex sindaco di Roma già dai tempi del Campidoglio.
La distribuzione del potere non ha dimenticato, anzi ha esaltato, secondo alcuni alleati scontenti dell’Unione, il gruppo dei prodiani ex Iri, come Pierpaolo Dominedò, nominato amministratore delegato di Patrimonio dello Stato spa. È una vecchia conoscenza di Prodi ed è stato direttore generale dell’Iri il presidente dell’Anas Pietro Ciucci (era già amministratore delegato di Stretto di Messina spa).
Alle Ferrovie i Ds sono riusciti a portare come amministratore delegato l’ex sindacalista Cgil Mauro Moretti, passato da una parte all’altra del tavolo delle trattative, da difensore dei lavoratori a «padrone». A Federservizi, una società delle Ferrovie dello Stato, nuovo presidente è l’ex deputato Pietro Tidei, primo dei non eletti per i Ds nel Lazio nelle politiche 2006.
Infine l’Alitalia: qui è arrivata l’ultima nomina del governo, con il marchio di Romano Prodi. Presidente da poco più di un mese è Maurizio Prato, ex Fintecna, ex Iri. Mancano ancora Eni, Enel e Poste, a maggio potrebbe scattare un nuovo valzer di nomine, ma in un anno il governo si è dato un bel da fare. Senza contare la rimozione del comandante Roberto Speciale dalla Guardia di finanza in relazione al controverso caso-Visco. Non era gradito, non è un mistero.