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 LE CONTRADDIZIONI DI VELTRONI Data: 21/09/2007
Appertiene alla sezione: [ Politica ]
Di Giampiero Cantoni senatore di Forza Italia

Walter Veltroni può rappresentare una sinistra moderna, diversa, occidentale? È troppo presto per dare una risposta ponderata e seria a questo interrogativo. Il sindaco di Roma ha fatto il suo debutto da leader del Partito democratico a Torino, al Lingotto, sede densa di simboli: per la storia della sinistra operaia, visto che si tratta del quartier generale dell’antico nemico (il grande capitale, la Fiat). E per la storia del Pci/Pds/Ds, visto che lì sono stati celebrati alcuni passaggi chiave della sua evoluzione.
Del suo discorso, che un quotidiano come Libero ha derubricato nella categoria del «paraculismo», mi è piaciuta una cosa. Mi è piaciuto che Veltroni abbia ufficialmente rimesso nella fondina la pistola dell’antiberlusconismo, che per dieci anni è stata l’unica arma utilizzata dai suoi predecessori. Non ha neppure usato la parola, il cognome «Berlusconi». Non per cancellare l’avversario, ma paradossalmente per normalizzare, per civilizzare, per depersonalizzare il dibattito politico. Di questo, credo, gli dobbiamo essere grati.
Ma come la politica non deve essere una gara d’insulti, neppure può essere solo galateo. Dalla leadership del Pd si deve pretendere non solo un atteggiamento, ma anche un programma. Ci vuole un confronto, sul futuro dell’Italia.
Coloro che sostengono, e io sono tra questi, che l’unico riformismo possibile, oggi, in Italia, sia quello che si riconosce in Forza Italia, devono proporre un «test» a Walter Veltroni. Il suo operato andrà giudicato laicamente, sulla base della sua adesione a un paradigma – quello dell’«economia sociale di mercato» – che è l’unica casa possibile per chi voglia fare coesistere un’attenzione non di maniera ai problemi della solidarietà sociale, con la preminenza del valore della libertà.
Prescinderei, in questo momento, da valutazioni di quadro politico. La candidatura di Walter Veltroni a leader del nascituro Partito Democratico è stata estratta dal cilindro da Massimo D’Alema in una situazione particolare. Nell’esatto momento in cui l’eccezionalismo diessino, la superiorità morale della sinistra, andava in frantumi sotto i colpi di maglio delle intercettazioni sul caso Unipol, l’unico modo per tornare a «fare sognare» la base era togliere dalla naftalina l’ex idolo del «popolo dei fax», di gran lunga l’esponente della sinistra che più di ogni altro sa far palpitare il cuore del suo mondo. La scelta di D’Alema magari è stata dettata dalla disperazione, ma ha fatto tornare in ballo un capo talmente plastico da suscitare l’entusiamo dei riformisti, e guadagnarsi nel contempo l’imprimatur di Bertinotti («perché non lo abbiamo schierato prima?», ha chiesto il presidente della Camera).
Cerchiamo di riflettere, nel merito, su quali siano i punti più importanti, per chiedere a Veltroni un segno chiaro, per valutare il suo reale «tasso di riformismo». Su quali siano i cinque terreni su cui si deve giocare la sua idea dell’Italia. E su quanto vicina o lontana possa essere dalla nostra.

Primo punto. La scuola.
Walter Veltroni e Dario Franceschini sono andati in visita a Barbiana, per celebrare la figura di don Milani e dare così il senso di un’appartenenza, prima di mettersi in cammino verso la leadership dei democratici e, presumibilmente, una prossima campagna elettorale. I giornali ci hanno visto un ritorno al «catto-comunismo». A me sembra che Veltroni abbia voluto darsi più che una spolverata buonista. Credo abbia inteso rimettere al centro la questione dell’educazione, della coltivazione del capitale umano, in un momento molto difficile. È stato il governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, a ricordare nelle sue «Considerazioni finali», che, soprattutto al Sud, le condizioni della nostra scuola sono drammatiche. È giusto prenderne atto, ed elaborare soluzioni, se vogliamo che la politica ritorni a occuparsi di «cose».
Ma la scuola di Lorenzo Milani ci porta nella direzione giusta? In un certo senso sì: quando il curato del Mugello invoca nei fatti e con gli scritti la scuola libera, la libertà educativa (quella del prete di Barbiana era una scuola «privata» per cui invano chiedeva finanziamenti). Quando perora che nessuno sia perduto lungo il suo iter scolastico. Allora bisogna applicare subito questa idea. Perché inserisce il concetto di concorrenza emulativa anche tra le scuole. Diverso però se viene intesa secondo lo schemino dell’«obbedienza non è più una virtù». Oppure in quello delle colpe buttate addosso alla «professoressa». Oggi occorrerebbe piuttosto rilanciare il concetto di autorità, ridare orgoglio agli insegnanti...
Sarkozy, per certi versi un Veltroni di destra, ha scelto di affidarsi a simboli ben diversi. Ha voluto fare di nuovo alzare in piedi gli alunni, all’entrata del maestro. S’è preso del fascista, va da sé. Però ha ristabilito un ordine fra il banco e la classe, ha messo sul piatto la dura realtà che l’obbedienza ogni tanto può essere una virtù, ha riaffermato la verticalità di alcune relazioni come condicio sine qua non perché possano essere momenti di apprendimento.
Draghi, citatissimo da Veltroni, mette il dito sul tasto della formazione di capitale umano. Benissimo. Cominciamo allora a rimettere l’educazione al suo posto nella vita dei nostri figli e nipoti. Cominciamo a ricostruire le condizioni dell’educare, prendendo atto del triste fallimento del lassismo generalizzato.

Secondo punto. Le tasse.
A Torino Walter ha promesso: meno tasse. Bravo. Sono dieci anni che ci aspettiamo dalla sinistra un po’ meno di approssimazione sui temi fiscali. Ma proprio per non essere approssimativi, i capi del Partito Democratico dovrebbero trovare il coraggio di una revisione profonda delle proprie, antiche tesi. Come si può, nello stesso discorso, chiedere un alleggerimento della pressione tributaria, ed evitare di prendere partito sulle operazioni inquisitorie, a danno dei contribuenti tutti, di Visco?
Walter dovrebbe ammettere che la ricetta di Berlusconi era quella giusta, e quella di Prodi sbagliata. Solo diminuendo, e vistosamente, le imposte, si ravvivano gli incentivi in modo che i produttori di ricchezza abbiano voglia di ricominciare a lavorare e produrre a pieno regime. Non c’è distribuzione della ricchezza, prima della sua produzione. Veltroni ha fatto bene a dire: lottiamo contro la povertà, non contro la ricchezza. Ma per combattere la povertà, bisogna imparare come si crea ricchezza. Fino a oggi, la sinistra ex comunista si è esercitata soltanto in diverse variazioni sul tema della creazione di più povertà.

Terzo punto. Le infrastrutture.
L’unico punto incontrovertibile, nel discorso torinese di Veltroni, è stato quel «sì» alla Tav. A Torino, era impossibile dire diversamente. È stato in quel momento, che Veltroni si è spostato per un secondo sulle coordinate di pensiero del sindaco Chiamparino, un uomo lontano anni luce dall’ideologia, un riformista solido e concreto che incarna più di ogni altro forse un volto nuovo, aperto al mercato, non insensibile alle ragioni dei ceti dinamici, della sinistra di governo.
La Torino-Lione, però, non è l’unico cantiere, né il più importante, ad essere bloccato dal popolo dei veti. Al contrario: la moltiplicazione dei «veto players», e l’ideologismo ambientalista, tengono fermi, per esempio, i progetti degli impianti di rigassificazione, essenziali perché il nostro Paese possa essere protagonista, nel prossimo futuro, di una politica economica non approssimativa e non sempre perdente.
Benissimo, per la sua forza simbolica, il sì di Veltroni alla Tav. Però un leader riformista e democratico non può cavarsela solo con quel sì: deve dire sì alla Tav, ma anche ai rigassificatori e, perché no? al ponte sullo Stretto. E deve attaccare con durezza chi coi suoi no ci schiaccia nella depressione.

Quarto punto. Politica ed affari.
Qui, il silenzio assoluto. Veltroni non ha proferito parola sul dissesto della classe dirigente diessina, che l’ha rimesso in gioco. Comprendiamo le ragioni di solidarietà umana e prudenza. Però la vicenda di D’Alema e Consorte non insegna solo che non è la sinistra che possa fare agli altri la morale. Insegna perlomeno tre cose:
1.che permane un vasto problema di finanziamento della politica, che è questione non solo di risorse ma anche (e soprattutto) di trasparenza. Senza risposte, su questo fronte, la rispettabilità dei partiti è destinata a essere sempre friabile, e il vento dell’antipolitica continuerà a soffiare forte;
2.che l’indipendenza da istituzioni finanziarie e del credito dalla politica è più sulla carta che nei fatti. Come restituire spazi al mercato, è un problema che giustamente si è posto il governatore Draghi. La politica deve seguirlo;
3.che la guerra intestina fra politica e magistratura non si è chiusa, né con la morte di Bettino Craxi, né con le assoluzioni di Silvio Berlusconi.
Un leader democratico che voglia costruire sulla trasparenza, sul mercato, sulla pulizia delle istituzioni, può evitare di considerare questi problemi, e far finta che essi non possano e non debbano finire al centro di un accordo bipartisan, per l’ammodernamento delle nostre istituzioni?

Ultimo ma non ultimo tema. Lo Stato sociale.
Un leader democratico e riformista può evitare di prendere posizione contro i vari tentativi di sabotaggio della riforma delle pensioni in atto, da parte della sua stessa coalizione? Credo di no. Lo stesso Veltroni, sia detto a suo merito, intervistato da Gianni Riotta ha posto il tema del necessario adeguamento dell’età pensionabile, come questione civile, come questione ineludibile in una società che invecchia. Da questo punto di vista, lo «scalone» voluto dal governo Berlusconi non era una manovra rivoluzionaria: era solamente una strategia per stare al passo con gli andamenti demografici e le richieste dell’Unione Europea.
Mettere in discussione lo scalone significa mettere a rischio i conti pubblici e indebolire il futuro della prevalenza. Si tutelano diritti non più acquisiti ma persi, ma si mettono davvero a repentaglio le speranze dei più giovani.
Il mondo sta cambiando, il mondo del welfare è già cambiato. I due grandi leader della sinistra mondiale, negli anni Novanta, sono stati Bill Clinton e Tony Blair. Due politici non solo vincenti per l’immagine, ma anche profondamente, autenticamente coraggiosi. Che hanno saputo rivoluzionare i loro partiti. Non per abbandonare o annacquare il riferimento ai valori dell’equità: ma per garantire questo valore a vantaggio di tutti. Ai non garantiti dallo Stato sociale. Ai più giovani che si confrontano con mercati del lavoro completamente diversi da quello del passato.
Se vuole essere un riformista vero, da Veltroni non possiamo che aspettarci una cesura. Ci dica quale sarà il suo welfare. Ho voluto riassumere quelli che penso siano i cantieri da riaprire, e il più presto possibile, nella nuova fase politica che si va aprendo. Che sia una nuova fase, lo testimonia l’avvicendamento fra Prodi e Veltroni. Non è un segnale da poco. C’è la chiara consapevolezza, a sinistra, che questo governo ha esaurito le sue risorse di consenso e di reputazione.
A tutti, inclusi noi della Cdl, conviene un confronto politico diverso. Più civile, più occidentale, più sulle «policies». Nel discorso di Veltroni a Torino, ho colto la disponibilità ad una discussione condivisa, che metta da parte la violenza verbale del passato. Benissimo, è un inizio, un passo importante sulla via della legittimazione reciproca. È una sfida, questa, che il centro-destra deve accettare.
Ma se la sinistra ambisce davvero a rinnovarsi, sono altre le sfide. Ho posto alcune domande. Confesso di non aspettarmi delle risposte. Se arrivassero, però, per il Paese sarebbe un bene.

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