Le ultime riunioni del consiglio dei ministri hanno svelato, ove ce ne fosse stato ancora bisogno, che il governo è nudo, inerte, agonizzante e tuttavia rissoso. Scontri fra ministri, veti incrociati, polemiche da suburra che troppo spesso costringono l’esecutivo a rimangiarsi quel che il giorno prima aveva annunciato con spocchiosa sicurezza. Prodi, da tempo avvezzo alle menzogne, continua a dire di essere tranquillo, sereno, ma non c’è giorno in cui non debba esibirsi in snervanti trattative e minuetti per evitare che il fragile equilibrio della sua sgangherata coalizione salti irrimediabilmente. Fatica di Sisifo, che quotidianamente ricomincia e che terminerà soltanto quando il Professore e i suoi discordi compagni se ne andranno a casa.
Per disomogeneità e lacerazioni interne questo governo ha superato anche i più litigiosi esecutivi della Prima Repubblica, che avevano vita grama e generalmente molto breve.
Sui problemi rilevanti della vita italiana e sulle strategie necessarie per affrontarli nella coalizione si scontrano linee divergenti o contrapposte che costringono all’inazione e ai pasticci di cui i cittadini pagano i danni.
Ecco, in sintesi, i motivi delle divisioni e delle liti.
Sicurezza.
È su questo tema che il governo ha fatto l’ultima, in ordine di tempo, figuraccia. Dopo aver a lungo favoleggiato sul “pacchetto sicurezza”, il consiglio dei ministri non ha potuto varare il relativo disegno di legge. Se ne riparlerà, forse, chissà quando.
Il problema della sicurezza è avvertito in tutto il Paese come una drammatica emergenza. Nelle città grandi e piccole si avverte l’assedio della malavita diffusa, che minaccia tutti, ma che rende più dura la vita dei soggetti più fragili della nostra società: anziani, donne e giovani che vivono nelle periferie o nei centri storici degradati. L’invadenza della malavita è accresciuta e resa più pericolosa dalla presenza di troppi immigrati clandestini e di immigrati comunitari che vengono nel nostro Paesi per svolgervi attività criminali, dallo spaccio di droga allo sfruttamento di minori.
Un’emergenza di questo tipo richiederebbe maglie più strette per l’immigrazione, norme più severe per certi reati e una diversa articolazione dei poteri per rompere l’assedio criminale. Nella coalizione c’è una parte cosiddetta riformista che dice di essere sensibile alle richieste d’aiuto che vengono dai cittadini, ma c’è una sinistra radicale (sostenuta in parte da qualche esponente dei cattolici di sinistra) che ritiene un obbligo sociale la politica delle “porte aperte” e considera come un’ingiustificata oppressione le politiche anti-crimine che tutte le democrazie adottano per difendersi.
La linea lassista prevale e si concretizza anche negli assurdi tagli alle risorse destinate alle forze di polizia.
Protocollo sul welfare
Anche qui divisioni e dissensi, con pasticcio finale. Trattative chiuse e riaperte, due riunioni del consiglio dei ministri per partorire un brutto compromesso.
E nulla garantisce che nel passaggio parlamentare la maggioranza tenga. Si scontrano filosofie opposte sul progetto e i costi dello Stato sociale. La sinistra radicale vorrebbe dare tutto a tutti e subito, quasi a piè di lista, incurante degli oneri che ricadrebbero sui conti pubblici con effetti devastanti. Vorrebbe che la legge Biagi fosse di fatto cancellata, per tornare alla vecchia rigidità del mercato del lavoro che ha favorito la disoccupazione. I settori cosiddetti moderati del centrosinistra mostrano di volersi opporre a questi propositi di dilatazione della spesa pubblica, ma non hanno finora dato prova di energia sufficiente. Al momento della conta, fino a questo momento, ripetiamo, hanno tenuto a galla il Professore, pur sapendo che è succubo dei comunisti e dei massimalisti.
Pensioni
È uno dei capitoli più tormentati del protocollo. Di fatto il governo ha varato una controriforma pensionistica eliminando lo scalone, la norme che avrebbe imposto di ritirarsi dal lavoro con non meno di 60 anni di età e 35 anni di contributi. È stato inventato lo scalino, col quale saranno sufficienti 58 anni. E questo avviene mentre in tutta Europa si è innalzata l’età pensionabile a 60 e più anni, per adeguare la protezione sociale ai cambiamenti demografici e alla più lunga durata della vita.
Lo scalino ha un costo enorme per le casse dell’Inps, diversi miliardi di euro ai quali vanno aggiunti i miliardi che con lo scalone si sarebbero realizzati. Con queste premesse la spesa pensionistica è destinata a dilatarsi nel tempo e i rimedi non potranno che essere due: o si aumenteranno a dismisura i contributi, o si renderanno ancor più oppressive le tasse.
È certo che per i giovani che cominciano a lavorare adesso, o che hanno iniziato da poco, si profilano pensioni da fame.
Il governo ha anche varato una norma demagogica, in base alle quale i futuri pensionati dovranno ricevere un vitalizio pari almeno al 60 per cento dell’ultima retribuzione . È un bluff, la pensione in futuro dovrebbe essere calcolata sulla base dei contributi effettivamente versati, non sulla retribuzione. Questa norma è una cambiale in bianco: per onorarla lo Stato dovrà accrescere la spesa pubblica, accendendo la miccia di un deficit e di un debito da bancarotta.
Nonostante questi chiari segnali di cedimento, la sinistra radicale non è contenta del protocollo e del nuovo schema pensionistico e minaccia di imporre in Parlamento modifiche al testo, perché la spesa pubblica aumenti. Riformisti e moderati minacciano di non votare il disegno di legge per motivi opposti. Vedremo se avranno la forza di battere un colpo. Certo, il clima nella maggioranza si è ulteriormente inasprito e diventano possibili le rivolte che nei mesi scorsi sono rientrate all’ultimo minuto.
Tasse
Il dualismo rissoso che caratterizza maggioranza e governo si manifesta pure in materia fiscale. Questo governo ha aumentato le tasse portando la pressione fiscale a un livello mai registrato negli ultimi lustri, a oltre il 43 per cento. Probabilmente con la finanziaria che si prepara aumenterà ancora. Nel governo c’è una parte – i soliti riformisti e moderati timidi – che si rendono conto del danno arrecato al Paese con questa sciagurata politica fiscale che impoverisce le famiglie e frena le aziende. O, almeno, avverte con un certo timore l’ondata di proteste che sale da ogni ceto sociale. Ma finora questa parte ha avuto sempre la peggio, a dettare l’agenda e le forme di attuazione del programma ci ha pensato la sinistra radicale, che non si schioda dalla vecchia ricetta: più spesa, più tasse.
La ventilata riduzione dell’Ici è un mezzo bluff, sul quale è calato peraltro il silenzio. Interesserà una minoranza di cittadini e, comunque, l’eventuale sgravio si tradurrà in una mera partita di giro: i Comuni si rifaranno degli introiti ridotti aumentando gli altri tributi di loro competenza. Per gli italiani non cambierà nulla.
Sembrano essere svaporati nel nulla anche i bonus e gli sgravi annunciati per le famiglie numerose e meno abbienti. L’unica cosa certa sono le tasse.
Grandi opere e infrastrutture
L’Italia ha bisogno di colmare il divario che la separa dai più avanzati Paesi europei in materia di infrastrutture e grandi opere. Il governo di centrodestra aveva dato slancio impostando realizzazioni decisive, ma con l’avvento di Prodi tutto o quasi si è fermato.
Per la Tav siamo in stallo: non siamo ancora in grado spiegare alla commissione europea come e dove esattamente sarà realizzata l’opera e questo potrebbe rende problematico il finanziamento con fondi Ue. Senza la Tav il nostro Paese resterebbe tagliato fuori dalle grandi correnti di traffico continentali e intercontinentali. Nel governo c’è anche chi se ne rende conto, ma finora ha vinto la capacità di veto della sinistra radicale e ambientalista, impegnata in un’anti-storica battaglia contro la modernità.
Le norme sull’impatto ambientale sono diventata una trappola, un mezzo sicuro per bloccare lavori importanti.
Autostrade, infrastrutture come porti e rigassificatori: tutto può essere fermato in nome dell’ambiente. E l’Italia arretra.